Il potenziamento dei Centri di permanenza per i rimpatri (Cpr), così come previsto nei decreti approvati dal governo, non è una novità nel contesto italiano. La detenzione amministrativa come elemento strutturante la politica migratoria è ormai una costante di tutti i governi, di qualsiasi orientamento politico, dal 1998 in poi.

Basti pensare che nel 2017 l’allora ministro dell’Interno di un governo di centrosinistra, Marco Minniti, aveva ribattezzato i Centri di identificazione e di espulsione (Cie) in Cpr prevedendone la costruzione di uno per regione, obiettivo rilanciato dall’attuale governo.

Oggi le strutture funzionanti sono nove, dopo la chiusura a marzo 2023 di quello di Torino, per le proteste contro le condizioni di vita. I Cpr sono strutture nate per trattenere e rimpatriare le persone che si trovano in Italia senza un permesso di soggiorno. Sono chiamati centri, nei fatti sono carceri.

Sono luoghi perimetrati da sbarre altissime, filo spinato, dove spesso non è possibile vedere il cielo, perché coperto da grate. Sono luoghi altamente sorvegliati da polizia, carabinieri, esercito, guardia di finanza. Un controllo sofisticato per privare della libertà persone che non hanno commesso reati, ma che sono detenute per il semplice motivo di aver violato una regola amministrativa: non avere documenti.

Scarti giuridici

«Questa politica dell’immigrazione va avanti da vent’anni, in misura differente», spiega l’avvocato dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) Salvatore Fachile, «però ha una sua continuità nel voler creare all’interno dell’ordinamento giuridico un diritto speciale per gruppi di persone».

Fachile sottolinea come ora riguardi i migranti, ma può via via espandersi ad altri soggetti e in generale prevedere che lo stato possa «scavalcare una serie di principi costituzionali introdotti nel 1948 e ritenuti fino a pochi anni fa intoccabili. Legittimare una società che si basi su patti sociali differenti che possano privare una persona della libertà, il secondo bene più importante, dopo quello della vita, per lunghi periodi e senza garanzie».

Il sindaco di Firenze Dario Nardella (Ansa)

Il linguaggio usato dimostra il tentativo di rendere invisibile la violazione dei diritti e la disinformazione che lo avvolge. Le persone recluse vengono chiamate ospiti, e al posto di detenuto le istituzioni usano trattenuto. Centro invece di carcere. Il sindaco di Firenze del Pd, Dario Nardella, quando si era detto favorevole a un Cpr in Toscana, spiegava che non era destinato a persone «integrate», «che lavorano», ma «criminali», «persone che delinquono abitualmente».

In queste strutture, vengono invece recluse non solo persone provenienti dal carcere, che hanno ricevuto l’espulsione come misura di sicurezza pur avendo già scontato la propria pena, ma anche richiedenti asilo, persone appena sbarcate o, ancora, persone con un passato consolidato di relazioni sociali, che hanno però perso il lavoro e quindi il permesso di soggiorno.

Le violazioni

Chi ha vissuto l’esperienza del carcere, prima del Cpr, non ha dubbi nel dire che le condizioni di vita sono di gran lunga peggiori. Da anni associazioni, avvocati e garanti mettono in luce la dubbia costituzionalità del sistema, la mancanza di un fondamento giuridico e le violazioni dei diritti.

Molte le denunce di abuso di psicofarmaci come metodo di sedazione nei centri, dove la tutela della salute non è affidata al servizio sanitario nazionale (Ssn) ma a un medico dipendente dell’ente gestore privato, considerando che il privato guadagna per ogni persona trattenuta. Non solo, anche il Garante ha segnalato che le visite di idoneità al trattenimento, che dovrebbero competere al Ssn, garanzia di imparzialità, vengono eseguite dal medico del gestore.

Alle persone detenute, spesso viene sequestrato il cellulare o viene lasciato rompendo però la fotocamera, per impedire la documentazione di ciò che accade all’interno. Alcune riprese trapelate dai centri, pubblicate dalla rete Mai più lager - no ai cpr, mostrano cibo con i vermi, gli effetti della sedazione o la violenza delle forze dell’ordine. I centri, in cui negli ultimi tre anni sono morte nove persone, sono affidati dalle prefetture a cooperative e società a scopo di lucro. Alle prefetture spetta il dovere di vigilare sulla corretta esecuzione dell’appalto, e sul rispetto dei diritti, ma sembra che questo in molti Cpr non avvenga.

«La giurisprudenza ha più volte segnalato un allarme di costituzionalità», dice l’avvocato. La vita all’interno dei Cpr è disciplinata da un regolamento, un decreto ministeriale, che non ha un’efficacia di norma primaria e non prevede rimedi giurisdizionali in caso di violazione.

«L’uso di fonti secondarie fa parte, come il diritto penale amministrativo, di un’idea della società», prosegue Fachile, «dove i consociati delegano le scelte in maniera più massiccia ai poteri governativi. Da qui si arriva allo stato autoritario, però, senza dipingere scenari apocalittici, ci sono soggetti anche in questa compagine politica che credono molto nella delega e nell’uso di poteri regolamentari».

Anche il centrosinistra, spiega, «ha voluto più fiducia nel governo: si veda l’uso dei decreti legge. Fa comodo ed è la tentazione di investirsi progressivamente di un potere più ampio».

Il consenso

Non è la prima volta che vengono aumentati i termini del trattenimento a 18 mesi. I dati però dimostrano che i Cpr «non sono uno strumento effettivo, dato che solo il 50 per cento in media viene rimpatriato, indipendentemente dalla durata della permanenza», evidenzia il Garante delle persone private della libertà Mauro Palma.

Nel 2013 con il termine di 18 mesi è stato rimpatriato il 45 per cento delle persone trattenute, mentre nel 2017, con il termine di 90 giorni, il 59. Si parla dunque di poco più di 3mila persone e, anche se dovessero raddoppiare, «rimane una misura di per sé sproporzionata rispetto al fenomeno migratorio», fa notare Fachile. «Non sono uno strumento funzionale come viene raccontato. Sono uno strumento simbolico», sottolinea Palma, «di costruzione di consenso e gestione della paura».

In mancanza di accordi con i paesi d’origine, il rimpatrio risulta impossibile: è quindi illegittima, secondo il garante, la privazione della libertà se non è giustificata da una percorribile ipotesi di rimpatrio. Al contempo, anche qualora ci fosse un accordo con il paese d’origine, è necessario assicurare le garanzie previste dalla legge: i cittadini tunisini costituiscono il 71 per cento (dati 2022) delle persone rimpatriate tra quelle transitate dal Cpr.

ANSA

Majdi Karbai, ex parlamentare tunisino e attivista politico in esilio in Italia, racconta che spesso ai trattenuti tunisini non viene data la possibilità di fare richiesta di protezione internazionale, un diritto che spetta a chiunque. Spesso «nell’arco di poche ore», spiega Karbai, «vengono portati nei Cpr, senza poter chiedere asilo».

In questo periodo, diversi trattenuti tunisini hanno denunciato all’attivista di non poter parlare con i propri avvocati o di non riuscire a nominarli: «Non hanno possibilità di accedere al servizio legale». Inoltre, la Tunisia, con cui l’Unione europea e il governo italiano continuano a trattare, «non può essere considerato un paese sicuro», sottolinea Karbai.

«Oggi i giudici ricevono diktat dal potere esecutivo o vengono incarcerati, vengono arrestati oppositori politici, attivisti, giornalisti. In un paese sicuro si rispettano i diritti umani, e questo non accade in Tunisia», conclude.

Alternative

Considerato il costo umano ed economico (negli ultimi due anni sono stati indetti bandi per oltre 50 milioni di euro per la gestione) e l’ineffettività del sistema, secondo molte associazioni, come la Coalizione italiana libertà e diritti civili, occorre superare la detenzione amministrativa, e applicare misure non coercitive che rendano «la persona protagonista del proprio percorso di regolarizzazione». È necessario però creare vie legali di accesso e regolarizzazione per le oltre 500mila persone irregolari presenti sul territorio italiano.

«Vogliamo considerare la migrazione come un fenomeno sociale, umano, e quindi affrontarlo? O semplicemente rimandare la questione al prossimo governo?», chiede l’avvocato Fachile, precisando: «Io personalmente credo che la libertà di movimento se governata in maniera intelligente possa essere, anche per il futuro, uno degli strumenti per un maggiore equilibrio anche a livello geopolitico, e limitare il gioco di dominazione e soprusi internazionale che caratterizza la politica dei paesi ricchi».

Per il garante Palma, se le persone non possono essere accolte, va elaborata un’altra strategia, come quella dei rimpatri volontari: «È necessario costruire possibilità economiche di ritorno. Ma anche vivere in un paese con un’economia distrutta», evidenzia, «dal mio punto di vista ti rende titolare di un desiderio di andartene. Non solo chi scappa da guerre».

Il vuoto

Perché da oltre 20 anni il sistema italiano ed europeo potenziano un istituto così poco fondato? Mauro Palma porta l’esempio del centro di Torino, oggi in ristrutturazione: «Il Cpr di via Brunelleschi è nel cuore della città, con i palazzi che si affacciano: la visibilità dell’opinione pubblica che non reagisce a ciò che vede. Una visibilità non vista, perché il vedere richiede una consapevolezza. Quel non vedere da parte di chi si affaccia è ciò che lo legittima».

E sottolinea il vuoto di queste strutture: «Sono contenitori spogliati da tutto che vogliono determinare il vuoto della persona. Ma quella è una persona che sta sperimentando un proprio fallimento. È anche il nostro vuoto ad accettare le globalità, ciò che abita un mondo diverso al quale noi rispondiamo con la ricerca di consenso: non vedere, rinchiudere e dire ne abbiamo rinchiusi tanti».


 

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