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Sandro Pertini ha avuto una vita intensa sul piano personale e politico. Lo fecero evadere dal carcere di Regina Coeli dove i fascisti lo avevano recluso e probabilmente passato per le armi se non fosse fuggito prima, insieme a un altro socialista e futuro Presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat.
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Poco prima che iniziasse il semestre bianco il quotidiano il Giorno chiese le dimissioni anticipate di Pertini, proprio per stroncare sul nascere le voci, insistenti, di quanti intendevano sostenere la sua ricandidatura.
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La frase più politica significativa enunciata da Pertini credo sia racchiusa in una intervista: «Non vi può essere vera libertà senza giustizia sociale, come non vi può essere vera giustizia sociale senza libertà (...)».
Quando termina il settennato presidenziale, nel 1985, alcuni vorrebbero riproporlo per il secondo mandato stante la sua popolarità, ma il capo dello stato ha ottantotto anni e, soprattutto, c’è l’alternanza al Quirinale con la Dc da rispettare. Il Psi, di cui è figura storica e carismatica, ha infatti espresso anche il capo del governo con Bettino Craxi e la balena bianca sempre in ansia per le cariche da distribuire tra le sue fameliche correnti, scalpita.
Sandro Pertini ha avuto una vita intensa sul piano personale e politico. Lo fecero evadere dal carcere di Regina Coeli dove i fascisti lo avevano recluso e probabilmente passato per le armi se non fosse fuggito prima, insieme a un altro socialista e futuro Presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat.
Condannato al confino a Ventotene per attività antifascista sarà uno dei principali capi della liberazione, componente del Comitato liberazione nazionale (alta Italia), colui che proclamò, sollecitò, alla radio l’insurrezione e lo sciopero generale il 25 aprile del 1945. Esule prima in Francia, insieme a Turati, C. Rosselli e Parri, fu animatore della Resistenza e si batté perché Mussolini non fosse consegnato agli Alleati, ma fosse arrestato e condannato a morte. Tra l’altro un incontro fortuito tra il Duce e il futuro capo dello stato si ebbe a Milano, allorché l’uno entrante l’altro uscente si avvicendavano in una riunione dove Mussolini intendeva negoziare la resa.
Direttore dell’Avanti!, entra all’assemblea costituente, e si oppone al modo in cui l’amnistia togliattiana è applicata lasciando ampi margini di riciclaggio repubblicani a seguaci del fascismo repubblichino. Ostile anche alla “svolta di Salerno” del Migliore. Lottatore per l’indipendenza socialista, e per la sua unità, si prodiga instancabile per evitare divisioni, lacerazioni e frammentazioni. Memore certamente della scellerata contrapposizione degli anni Venti che porta, o meglio favorisce, l’ascesa di Mussolini e il consolidamento della dittatura. Pur nella diversità, e nel perseguimento di una alternativa rivoluzionaria di matrice non leninista, ha sempre tentato di lavorare per l’unità “delle sinistre”. La scissione di palazzo Barberini, e la nascita del Psli-Psdi trovò in Pertini un fiero oppositore e paziente negoziatore e mediatore seppure sconfitto, infine.
Risoluto e imprevedibile
Eletto alla Camera nel collegio Genova-Imperia-La Spezia-Savona, quando il peregrinare dei collegi era pratica meno diffusa e più deprecata, alzò molto i toni in occasione del congresso del Movimento sociale italiano provocatoriamente convocato a Genova, città medaglia d’oro al valor militare della Resistenza. Nelle giornate convulse del neonato, e fortunatamente breve, esecutivo guidato da Tambroni e sostenuto dal Msi oltre che della Dc. Esperienza che finì presto anche grazie alla grande mobilitazione popolare, tra cui quella memorabile, e tragica, di Reggio Emilia, di cui Pertini fu difensore denunciando gli abusi e i soprusi delle forze di polizia. Sempre dalla parte dei più deboli, dei lavoratori, dei disoccupati, non lesinò sostegno al movimento sindacale. Dalla cui parte si pose senza esitazione alcuna in occasione dell’omicidio di Guido Rossa da opera dalle Brigate rosse, cui scagliò un durissimo attacco.
Ma fu anche imprevedibile rispetto alla prassi, deciso nell’intervento quanto risoluto nei confronti della protesta/sciopero dei controllori di volo – all’epoca esponenti dell’Aviazione militare – che avevano bloccato il traffico aereo; Pertini ne convocò i rappresentanti intimando loro di riprendere immediatamente il lavoro, e giustificandone la decisione in qualità di capo delle forze armate.
Presidente della Camera e senatore, mai esponente di governo, riuscì a mantenere il contatto con la realtà “politica e sociale” del paese, sempre attento a leggerne gli umori e le emozioni, i bisogni. Sentì che il paese aveva bisogno di una guida durante lo smarrimento generato dinanzi alla morte di un bambino caduto in un pozzo, prima sfacciata commercializzazione del dolore a opera di mass media in evidente crisi di idee e declino ideale.
Figlio delle lotte di emancipazione contro tutti i tipi di soprusi, ingiustizie, padroni e propalatore del verbo socialista di emancipazione dell’uomo e della sua dignità, si batté anche contro la mafia, a lungo negata in un paese di Don Abbondio. La famiglia del sindacalista Salvatore Carnevale, ucciso a Sciarra perché impegnato nella difesa delle terre occupate dal latifondo mafioso, trovò in Pertini un avvocato solidale ed efficace, cui si contrappose un altro futuro presidente della Repubblica, Giovanni Leone. Altri tempi, altre tempre. Nel 1983 sciolse il Consiglio di un comune calabrese per infiltrazioni mafiose, dopo che nel messaggio di fine anno aveva esaltato la figura di Pio La Torre e del generale Dalla Chiesa.
Lo stesso afflato emotivo lo dimostrò durante il terremoto del 1980 che sbriciolò l’Irpinia e palesò l’inadeguatezza di uno stato senza organizzazione e senza risorse per la protezione civile. Il presidente dei “funerali di stato”, suo malgrado. La terrificante estate del 1980 segna la neonata presidenza di Pertini: l’abbattimento dell’aereo dell’Itavia che vola tra Bologna e Palermo ricorda a tutti che l’Italia insiste sul confine geopolitico, militare e ideologico della divisione – ancora pregnante – segnata dal mondo bipolare configurato a Jalta e da scossoni di rinculo della guerra fredda. A poco più di un mese di distanza la strage fascista di Bologna fiacca l’animo di Pertini, che però da resistente non cede allo sconforto e si reca nella città felsinea per tenerla simbolicamente, e fisicamente per mano, affiancando e guidando il sindaco Zangheri denunciando il “delitto infame”.
Nei rapporti con i partiti, il parlamento e l’esecutivo, Pertini introduce una rilevante discontinuità. Conferisce l’incarico di formare il governo al repubblicano La Malfa, nel 1979, e la non riuscita di questo schema sancisce la fine della legislatura. Il rapimento Moro fece il resto e La Malfa divenne vicepresidente di Andreotti, cui lo stesso Pertini aveva posto come condizione per l’incarico. Aveva aperto la strada al governo di un laico, il primo da quello presieduto da Parri, ancora formalmente sotto la monarchia, ma con l’Italia liberata. Riuscì a nominare Spadolini nel 1981 e infine a coabitare con Craxi insediato a palazzo Chigi, storica presenza di due socialisti in contemporanea alle più alte cariche istituzionali. Un esempio della difesa del primato parlamentare e degli equilibri costituzionali contro l’accentramento dei poteri lo dimostrò con critiche alla cosiddetta legge (elettorale) “truffa” del 1953 che avrebbe attribuito ampia maggioranza di seggi ai vincitori.
La morte di Berlinguer
La tragica, ellenica, morte di Enrico Berlinguer lo segna profondamente. Per le circostanze, il legame personale, l’afflato politico. E la casualità, posto che Pertini si trova a Padova mentre il leader comunista pronuncia il suo ultimo discorso; Pertini è visibilmente addolorato: «Lo porto via come un amico fraterno, come un figlio, come un compagno di lotta».
Qualche giorno dopo durante le esequie in piazza San Giovanni, Nilde Iotti rivolge un saluto al “compagno” Pertini, al presidente, e con inevitabile retorica porge un invito a un saluto caloroso, a un ringraziamento, già avvenuto molte volte da parte della folla addolorata e orgogliosa in quella giornata. «A nome della direzione e del comitato centrale del partito, a nome dei comunisti, a nome di tutti voi che siete qui presenti, voglio dire dal profondo del cuore, grazie presidente Pertini!».
Nominò cinque senatori a vita, tra cui la prima donna (Camilla Ravera), e con la sua scelta fece salire il numero di senatori a vita in carica oltre la soglia costituzionale, da cui successivamente non si derogò. Il numero di “esternazioni” (341) minore di quello di presidenti più meno “coevi”. Certamente inferiore agli attivissimi Cossiga e Scalfaro, impegnati a fronteggiare sistemi partitici in fase di destrutturazione.
Il presidente Pertini parla schietto, per indole, per la retorica socialista frequentata sui libri dei primi rivoluzionari di inizio secolo, ma anche perché conosce le corde emotive del popolo che ha frequentato direttamente quale muratore nei cantieri edili in Francia, nelle campagne piemontesi e nella politica attiva. Conserva anche un tratto decisamente populista, ante litteram, che lo ha fatto amare, in taluni casi acriticamente, e ricordare come il presidente del popolo principalmente per le sue manifestazioni più sanguigne. Del resto, è osannato dai populisti contemporanei che mescolano “i taxi del mare”, le caste e la democrazia diretta. Presidente antisistema, contro il lassismo del Pentapartito, la corruzione di vari ambienti democristiani e socialisti, il clientelismo di stato, i diritti negati, le violazioni sistematiche dei principi costituzionali di lavoratori e classi subalterne, il lezzo della P2 infine sciolta nel 1982.
I più lo ricordano per l’esultanza calcistica al Mundial del 1982 nella Spagna appena destata dal giogo franchista, e probabilmente in lui battere l’avversario tedesco avrà avuto un senso di antica rivalsa. Antesignana delle “storie” da social, i reporter divulgarono le immagini di una memorabile, spontanea, partita a scopone di ritorno verso l’Italia che Pertini giocò con alcuni calciatori, i quali – dicunt – pare lo abbiano fatto vincere per non irritarlo. Serbava un tratto collerico, rivoluzionario, contadino, ribellista, anarchico e giacobino. Profondamente istituzionale, elegante, e sobrio… ma mai silente. Pronto a intervenire uscendo dal palazzo, ma senza gli eccessi e i picchi polemici e istituzionali di Cossiga. Sempre tra le persone, ne difese i diritti, con retorica consumata rivolse appelli e accuse. Sul terremoto del Belice «non sono né sordo né muto né cieco»; Chi ha speculato su questa disgrazia? Vana attesa di risposta.
Maggioranza strabordante
Eletto al sedicesimo scrutinio con una maggioranza strabordante, mai superata (82 per cento), senza clamori e senza sorprese; a proclamarne l’elezione è il comunista Pietro Ingrao, presidente della Camera.
Poco prima che iniziasse il semestre bianco il quotidiano il Giorno chiese le dimissioni anticipate di Pertini, proprio per stroncare sul nascere le voci, insistenti, di quanti intendevano sostenere la ricandidatura di Pertini. Tra cui egli stesso, sebbene ormai quasi novantenne, ma – e forse pour cause – beneficiario di grande popolarità. La rielezione veniva anche avanzata da ambienti socialisti (Rino Formica) anche in chiave di riavvicinamento con i comunisti per preparare l’alternanza/alternativa.
La frase più politica significativa enunciata da Pertini credo sia racchiusa in una intervista: «Non vi può essere vera libertà senza giustizia sociale, come non vi può essere vera giustizia sociale senza libertà (...)». Con sintesi sublime ed efficace coniuga il rispetto dei diritti sociali e di quelli individuali. Un manifesto da riaprire e perseguire con indomito spirito riformista.
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