Restano gli strascichi della figuraccia sul provvedimento annunciato in consiglio dei ministri e poi cancellato dall’ordine del giorno. Il contenuto è ancora da scrivere. E mancano adeguati stanziamenti
L’imperativo è intervenire: produrre un nuovo decreto contro un’emergenza. E così, seguendo questo principio, la smania di propaganda del governo Meloni ha finito per produrre l’ennesimo avvitamento, tra veti incrociati, liti e un rinvio a data da destinarsi del provvedimento anti-dossier.
Probabilmente se ne parlerà a metà novembre. Bisognerà trovare un raccordo tra i vari attori, dal ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, al direttore dell’Agenzia della cybersicurezza, Bruno Frattasi. «Abbiamo dato la sensazione che avessimo la soluzione in tasca, quando così non è», ammette con Domani una fonte governativa in merito al pasticcio comunicativo e procedurale. Una prova di avventatezza.
Agli atti resta infatti la figuraccia dell’ultimo consiglio dei ministri con l’inserimento nell’ordine del giorno del decreto sui crimini informatici e la successiva correzione con la cancellazione del provvedimento dallo stesso ordine del giorno. Al netto delle smentite di rito, era palese che qualcosa non stesse funzionando.
Tensione e figuraccia
Adesso l’ordine di scuderia è stato quello di minimizzare l’accaduto. A fare da pompiere ci ha pensato il ministro della Giustizia, Carlo Nordio: «Le illazioni fatte su contrasti, veti o altro, sono perfettamente legittime, nella libertà di stampa, ma infondate». Di sicuro il Guardasigilli ha ammesso che il provvedimento «era incompleto» e quindi non poteva essere esaminato nemmeno in via preliminare a palazzo Chigi.
Era vero che si stava accelerando troppo in fretta. Anche su un tema ccldo come quelli sui dossier su cui Giorgia Meloni annuncia una linea «implacabile» del suo esecutivo. Da quanto apprende Domani tra i ministri c’è chi ha posto un’ulteriore questione: la necessità di reperire risorse da mettere sul capitolo della cybersicurezza e della difesa dei dati.
Intanto Piantedosi, in parlamento, ha rivendicato «un investimento di 715 milioni di euro per il potenziamento delle reti dei servizi e dei sistemi cyber della pubblica amministrazione» e una buona «capacità di prevenzione e risposta alla minaccia cibernetica attribuite alla Polizia postale sono state ulteriormente implementate, mediante la creazione di appositi Nuclei operativi territoriali». Secondo il Viminale, tra il 2022 e il 2023, ci sono oltre 25mila attacchi informatici classificati come rilevanti e più di ottomila nei primi 8 mesi del 2024. Resta il nodo dei soldi: lo sviluppo degli strumenti di indagine può funzionare fino a un certo punto, insieme all’inasprimento delle pene, chiesto in coro da tutte le forze di maggioranza. A cominciare dalla Lega di Matteo Salvini. Di fronte a una minaccia digitale, sostanzialmente nuova, servirebbe una robusta iniezione di investigatori. E di personale.
Legge flop
Il problema della scarsa dotazione economica era già stato registrato durante l’approvazione della legge sulla cybersicurezza, all’epoca accolta come un grande punto di svolta. Il sottosegretario alla presidenza Mantovano sosteneva con soddisfazione che «il sistema di sicurezza nazionale veniva finalmente dotato di strumenti operativi più adeguati a respingerli». Affermazioni invecchiate male nel giro di pochi mesi. Ma la cosa non sorprende chi ha seguito l’iter di approvazione di quel documento.
«Il governo ha perso diverse occasioni per potenziare la cybersicurezza e va avanti a spot lasciando alle imprese e ai cittadini l’onere di provvedere alle soluzioni», dice a Domani Andrea Casu, deputato del Pd.
Il nodo resta quello delle risorse messe su questo capitolo: «L’Italia è diventata un paradiso dei cyber-attacchi, perché on c'è alcuna azione concreta e va avanti senza stanziare neanche un euro in più per fermarli», insiste il parlamentare dem. Così si torna al punto di partenza: immaginare un decreto che possa essere una bandiera da sventolare. Ma con effetti nulli già sperimentati con la legge sulla cybersecurity.
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