C’è un’associazione non profit semisconosciuta che da qualche tempo non sta facendo dormire sonni tranquilli ai vertici dei nostri servizi segreti. Né a più di un grand commis delle nostre istituzioni, e di qualche manager di aziende strategiche partecipate dallo Stato. Il suo nome è “Marco Polo Council”, ha sede a Roma, ed è presieduta dall’ex vicepresidente di Eni Leonardo Bellodi. Ma è finanziata per milioni di euro – ha scoperto Domani – da alcune società anonime degli Emirati Arabi Uniti. Un flusso di denaro che arriva anche a una srl controllata dallo stesso Bellodi, e nel conto corrente del generale Alberto Manenti, ex numero uno della nostra agenzia di sicurezza esterna (Aise) considerato vicinissimo a Marco Minniti.

Una vicenda, quella della Marco Polo, che è finita anche nelle maglie dell’antiriciclaggio, e che – se analizzata nei dettagli - disegna uno spaccato inedito e inquietante del comparto della nostra sicurezza nazionale.

Andiamo con ordine, partendo dal contesto. Un mese fa la decisione del governo di allontanare prima Gennaro Vecchione e poi la spia Marco Mancini dai vertici del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (Dis) ha avuto ricadute profonde. Il pensionamento coatto della coppia ha infatti rotto fragili equilibri che duravano da lustri, e convinto anche i più scettici che una profonda riforma delle tre agenzie è tra le priorità del nuovo esecutivo.

Il terremoto è stato provocato non tanto dall’addio di Vecchione, un generale di divisione della Guardia di Finanza considerato da quasi tutti gli uomini del settore un turista dell’intelligence capitato a Piazza Dante soprattutto grazie ai buoni uffici con Giuseppe Conte. Quanto dal siluramento del caporeparto pizzicato a parlare con Matteo Renzi su un’autogrill di Fiano Romano. Mancini è stato considerato per lustri una superspia intoccabile anche perché rappresentante massimo di una cordata – quella che fa riferimento all’ex direttore del Sismi Nicolò Pollari e al suo dante causa Gianni Letta - considerata fino a poche settimane fa ancora influente.

Il blitz di Franco Gabrielli, sottosegretario con delega ai servizi segreti e braccio destro di Draghi su ogni questione inerente la sicurezza interna, e della neodirettrice del Dis Elisabetta Belloni ha chiarito ai naviganti che le regole d’ingaggio sono cambiate, e che il sistema costruito al tempo da Letta e dal suo sodale Luigi Bisignani è definitivamente ai titoli di coda.

Consulente a sorpresa

I sodali della scuola pollariana, però, non sono gli unici a lutto stretto, consci che nelle future partite sulla nomina dei vicedirettori e sulla nuova Agenzia per la cybersicurezza non avranno alcuna voce in capitolo. All’Aise, l’agenzia per la sicurezza esterna oggi guidata dal generale Giovanni Caravelli, c’è infatti una seconda fazione che – con il nuovo corso imposto dai draghiani – sta perdendo potere e privilegi. Si tratta di quella che ha, come suo riferimento, proprio Manenti, numero uno a Forte Braschi fino a fine 2018 e ancora oggi assai benvoluto da pezzi rilevanti dell’intelligence nazionale e internazionale.

Grande esperto di Libia, agganci di primo livello con servizi stranieri (l’ex direttrice della Cia Gina Haspel arrivata a Roma nel 2019 volle parlare con lui nonostante fosse stato dimissionato un anno prima), Manenti è stato nominato all’Aise dal governo Renzi ed è buon amico di Minniti, ex ministro dell’Interno ed ex autorità delegata ai tempi del governo Gentiloni. Un democrat che tre mesi fa ha annunciato di lasciare la politica e il Pd per diventare presidente di una nuova fondazione interna a Leonardo, la nostra multinazionale degli armamenti controllata dal ministero del Tesoro.

Se i sodali di Mancini hanno perso il loro faro dopo il fattaccio dell’autogrill e gli incontri riservati con politici di primo piano come Matteo Salvini e Luigi Di Maio, a molti non sono piaciute nemmeno alcune scelte professionali di Manenti. Che è si in pensione, ma – ha scoperto Domani – nel 2019 e nel 2020 ha incassato ricche consulenze sia da Leonardo sia dalla società Mpc una piccola società italiana specializzata in intelligence ma finanziata per milioni da un fondo sovrano degli Emirati arabi uniti.

La critica fatta dai suoi antipatizzanti è semplice: Manenti da un lato incassa bonifici per centinaia di migliaia di euro grazie alla generosità degli emiratini, dall’altro viene foraggiato con oltre 200mila euro da Leonardo, che l’ha assunto “a progetto” per curare i rapporti commerciali nell’area del Medio Oriente. In particolare in Qatar, dove l’ex Finmeccanica ha affari di ogni tipo, compresa la commessa per il sistema di sorveglianza del nuovo stadio dei mondiali del 2022 “Al Bayat”. Un affare finito male: al netto di arbitrati e controversie giudiziarie tra il gruppo Psc, Salini e Leonardo che ora potrebbero pesare sui conti di piazza Monte Grappa per centinaia di milioni di euro, il Qatar a causa di ritardi nella realizzazione dell’impianto non ha ancora saldato i costi dei lavori. È su questa partita che Manenti – che vanterebbe ottimi rapporti con l’intelligence qatarina - sta provando a dare una mano alla nostra multinazionale. In caso di esito positivo la sua success fee potrebbe andare dai 3 ai 5 milioni di euro. «Alberto finora ha avuto solo i soldi del rimborso spese, e non è detto che riesca a prendere alcun bonus: potrebbe alla fine della fiera andarci pari», dicono dal suo entourage.

L’incarico a Manenti è stato voluto dall’amministratore delegato Alessandro Profumo in persona, che forse non immaginava che le relazioni istituzionali (e i rapporti internazionali) dell’azienda sarebbero poi diventati appannaggio esclusivo del nuovo presidente Luciano Carta, generale della Guardia di finanza che nel 2018 sostituì proprio Manenti alla guida dell’Aise, e che nel maggio 2020 fu spostato – su indicazione del primo governo Conte - nel prestigioso ufficio che fu pure di Gianni De Gennaro.

Arriva Bellodi

Se gli amici di Manenti escludono conflitti di interesse in merito alle consulenze incrociate nell’area del golfo e dall’ex Finmeccanica non ritengono che il contratto dell’ex spia siano troppo costosi o inutili, ci sono però altre evidenze a preoccupare qualche addetto al comparto attento agli equilibri nell’intelligence nazionale.

Riguardano altre attività private di Bellodi e Manenti, ben rappresentate da una serie di relazioni della Uif, l’ufficio antiriciclaggio della Banca d’Italia, e da documenti interni della Mpc srl e dell’associazione Marco Polo Council, che Domani ha potuto leggere in esclusiva.

La storia è complessa, e bisogna partire dal principio. Bellodi, classe 1965, è un nome sconosciuto al grande pubblico, ma da tempo è uno dei lobbisti più in vista nei palazzi che contano. Socio del manager del Milan Paolo Scaroni nella società di consulenza Strategic Advisor (Scaroni, ex ad di Eni, considera il veneziano il suo allievo prediletto), ha storici rapporti con Manenti (quando era a capo dell’Aise spesso lo portava in missione con lui), Bellodi è diventato consulente della Libyan Investment Autorithy, il fondo sovrano libico del governo di Tripoli.

L’imprenditore - che risulta da documenti in Camera di Commercio ancora “procuratore” dell’Eni - è stato fino a pochi giorni fa anche socio in affari dell’amico e storico consigliere di Matteo Renzi Marco Carrai, con cui ha fondato la Cys4, un’azienda specializzata in sicurezza informatica che nel 2020 aveva deciso (come ha raccontato la Verità a gennaio) di girare al leader di Italia Viva 60mila euro come compenso di una serie di seminari sulla protezione cibernetica. Emolumenti che Renzi non ha però mai incassato, a causa dell’arrivo della pandemia e di segnalazioni antiriciclaggio che hanno convinto i manager dell’azienda a disdire i contratti con l’ex premier.

Mistero Marco Polo

Ma dal 2019 Bellodi ha investito gran parte del suo tempo soprattutto a curare due sue nuove creature. La piccola società di consulenza MPC srl, di cui è unico socio. E il misterioso think-tank Marco Polo Council, «un’organizzazione indipendente» si legge in un’opuscolo «non affiliata a nessun governo o interesse economico, basato su integrità, indipendenza e discrezione». «Un’associazione no-profit» specializzata in intelligence con sede a piazza Santi Apostoli a Roma, che nella brochure spiega di essere riuscita «a coinvolgere e includere il più alto livello di leader della sicurezza nazionale di tutto il mondo», compresi quelli di «Argentina, Grecia, Egitto, Israele, India, Usa e Arabia Saudita». Più che realizzare studi e rapporti, Marco Polo Council intende organizzare tavole rotonde «discrete», che possano consentire «a direttori ed ex direttori dei servizi di intelligence, ministri e consulenti di sicurezza nazionale di discutere l’argomento della specifica conferenza... Non ci sarà alcun prodotto scritto alla fine degli incontri, fatto che permetterà ai partecipanti di esprimersi in modo più aperto e onesto».

Il fondatore e presidente è Bellodi, ma da documenti interni scopriamo che l’altro e unico componente del consiglio direttivo è Fabrizio Celani. Non un ex 007 e nemmeno (spiega lui stesso) l’omonimo massone iscritto al Grande Oriente d’Italia, ma il direttore sanitario dell’ospedale pugliese “Francesco Miulli”, controllato da un ente ecclesiastico il cui governatore è il vescovo di Altamura Giovanni Ricchiuti.

Ora, sia la srl che l’associazione di Bellodi sono finite nel mirino dell’antiriciclaggio di Bankitalia per alcune operazioni sospette. Spulciando i documenti si scopre che l’associazione ha ricevuto nel 2018, prima della fase di lancio, un bonifico di ben 1,3 milioni di euro dalla Dealer Trading Lcc, una sconosciuta società degli Emirati Arabi. A richieste di chiarimenti della banca (che ha poi segnalato l’anomalia alla Uif) Bellodi si giustifica dicendo «che il bonifico è un contributo a fondo perduto dato dalla società di Abu Dhabi per coprire i costi di avviamento e per il lancio delle prime iniziative». Tra le prime uscite del conto corrente della Marco Polo c’è anche lo stipendio per il fondatore: oltre 98 mila euro per il periodo maggio-settembre. «Una somma» si legge ancora nei documenti Uif «che appare elevata».

Non sappiamo con chi lavori il think-tank. Né chi ci sia dietro la società emiratina che l’ha foraggiato. Qualche fonte qualificata ci dice però che la Marco Polo ha organizzato almeno due incontri (di cui uno negli Emirati) dove erano davvero presenti i vertici di alcune agenzie di sicurezza di primo livello. Possibile che un’operazione di questo standing sia stata messa in piedi da Bellodi in solitaria, senza che nessuno nelle nostre istituzioni e del comparto di sicurezza ne sapesse nulla?

Sceicchi e milioni

Altri osservatori – visto le anomalie e i misteri sui finanziatori - temono che dietro la Marco Polo possano invece esserci non operazioni coperte, ma interessi stranieri, golosi di poter entrare in contatto con un imprenditore inserito come Bellodi e con un ex direttore dell’Aise come Manenti. Quest’ultimo, in effetti, risulta essere stato pagato dall'ex manager Eni per alcune fatture nel 2020 per un totale di 150mila euro. Bonifici partiti non dai conti dell’associazione no profit, ma dal secondo veicolo di Bellodi: la srl MPC, società con capitale sociale da soli 10mila euro di cui il veneziano risulta essere socio unico.

Anche la srl, costituita in contemporanea con la Marco Polo Council, è finita al setaccio dell’antiriciclaggio. Perché pure questa è stata finanziata da un’altra società di Abu Dhabi, la Underscore Media Fz Llc. Pure stavolta, lo sponsor è munifico: nel dicembre 2019 la nuova società di studi e analisi sociali «finalizzate alla promozione dei rapporti internazionali con il medio Oriente e il Nord Africa» incassa subito dagli Emirati 1,1 milione di euro. Che cosa comprano gli emiratini da Bellodi con tutti quei soldi? Apparentemente report giornalieri e settimanali sulla situazione in Libia, nell’ambito di un progetto che – nelle note del bilancio della MPC – viene definito “Lybia Project».

Secondo la Uif, però, c’è un problema: la Underscore Media non risulta in nessuna banca dati consultabile, «di modo che risulta impossibile verificarne l’effettiva esistenza, oltre che la compagine sociale». Interrogato in merito dalla banca segnalante (la Cassa di risparmio di Orvieto) Bellodi prima ha spiegato di aver fatturato alla società misteriosa 1,4 milioni di euro. Poi «ha riferito di non essere assolutamente a conoscenza dell’identità della controparte».

L’esperto di intellicence, in pratica, ha detto alla sua banca di non sapere chi lo paga. Fatto che appare non solo allarmante, ma assai improbabile. Ancora ora non sappiamo ufficialmente chi ci sia dietro la Underscore, ma non è impossibile che Bellodi sia stato costretto a “coprire” gli sceicchi emiratini, usi ad creare veicoli finanziari per sovvenzionare operazioni riservate. Solo un’ipotesi, s’intende, che tuttavia si fa più concreta quando si legge la nota integrativa al bilancio 2020 della srl, in cui viene citato il terzo finanziatore di Bellodi. Si tratta del fondo Chimera Investments, che firma con la neonata srl un altro contratto da un milione di euro, bonificati in due tranche da mezzo milione l’uno, a febbraio e dicembre del 2020. È più facile capire, stavolta, i veri soci: Chimera è infatti un gruppo di investimento degli Emirati Arabi Uniti controllato direttamente da Abu Dhabi’s Royal Group. Fonti aperte ci rivelano che si tratta di un fondo sovrano del regime, il cui l’amministratore delegato è sua altezza Sheikh Tahnoon bin Zayed Al Nahyan. Cioè il fratello dell’attuale sovrano degli Emirati, Khalifa, e del principe ereditario Mohammed bin Zayed (chiamato anche con l’acronimo MBZ), leader de facto del paese islamico ricco di petrolio. Non solo: lo sceicco Sheikh Tahnoon che – attraverso Chimera – ha finanziato prima Bellodi e poi Manenti è il principale consigliere di MBZ per la sicurezza nazionale e l’intelligence, tanto da essere stato lui ad incontrare lo scorso agosto il capo del Mossad israeliano Yossi Cohen. Un incontro che ha anticipato il clamoroso accordo che ha normalizzato i rapporti tra i due ex nemici.

Fonti vicine al dossier spiegano che il milione dato da Chimera alla MPC srl non serviva però ad attività di intelligence parallela come quelle organizzate dalla Marco Polo Council, ma era un tentativo di investimento degli emiratini in Italia, per finanziare start-up innovative: sarebbe dentro quest’ambito – spiegano amici di Manenti – che nasce la collaborazione tra il generale in pensione e Bellodi.

Stipendi e prebende

Facendo i conti della serva, è un fatto che la MPC srl e la Marco Polo Council riescano in pochissimi mesi ha percepire da tre società emiratine ben 3,7 milioni di euro. Con le provviste degli arabi, la srl paga certamente lo stipendio al suo ad (cioè lo stesso Bellodi, che si autoassegna 300mila euro tondi tondi, secondo l’ultimo bilancio), 1,2 milioni di euro in un anno a consulenti assortiti (tra cui Manenti) per studi ed «analisi socio-politiche», più 177mila euro «ai collaboratori della società». Circa 30mila euro finiscono all’enigmatico “direttore sanitario” Celani, mentre molti denari vengono bonificati dalla MPC verso società private estere che si occupano di intelligence e cyber sicurezza. Una fattura desta, tra le altre, interesse: quella di 180 mila euro a favore della svizzera Brasidas Group, dove si legge «final beneficiary Underscore Media, for Lybian Project Service».

Ora, non sappiamo se i nostri servizi segreti e l’autorità delegata di Palazzo Chigi conoscano i rapporti stretti tra gli emiratini e duo composto da Bellodi (che risulta aver trasferito la sua residenza nella Sky Tower di Abu Dhabi) e Manenti, un ex 007 che conosce ogni segreto della Libia non solo perché per quattro anni numero uno dell’Aise, ma anche per essere nato lì tanto da parlare alcuni dialetti locali. È sicuro, però, che gli Emirati Arabi che pagano la Marco Polo hanno - nel paese nordafricano – interessi assai lontani da quelli italiani. Basta ricordare che prima del cessate il fuoco e della creazione del governo di unità nazionale guidato da Abdul Hamid Dbeibah, gli islamisti appoggiavano senza se e senza ma (anche violando l’embargo sulle armi imposto dall’Onu) il generale ribelle di Tobruch Khalifa Haftar. L’Italia, al contrario, ha sempre appoggiato l’esecutivo di Tripoli, l’unico legittimato dalle Nazioni unite. Non solo: dopo lo stop imposto dal governo Conte alla vendita di armi ad Abu Dhabi, l’emiro MBZ ha deciso di sfrattare seduta stante i militari italiani dalla base di Al Minhad.

Fonti interne alla nostra intelligence spiegano a Domani che le attività del gruppo che ruota intorno alla Marco Polo sono monitorate da tempo, e che la società MPC è stata da poco messa in liquidazione. In effetti le visure camerali più recenti evidenziano come – nonostante gli affari d’oro – Bellodi ha deciso poche settimane fa di mettere in liquidazione la srl. Tutto finito dunque, grazie alla moral suasion degli alti papaveri del nostro comparto di sicurezza? Si vedrà. Intanto la Marco Polo Council non è ancora stata chiusa: il 21 aprile di quest’anno si è infatti trasformata da associazione no profit in una nuova srl a scopo di lucro.

Nel verbale, firmato davanti all’avvocato Andrea Positano de Vincentis, Bellodi e il socio Celani dichiarano di aver deciso di trasformare il think tank in società dopo «ampi dibattiti informali». Il capitale sociale è di soli 10mila euro (70 per cento in mano al lobbista veneziano e il 30 per cento a Celani), ma la nuova srl eredita dall’associazione di intelligence un patrimonio di 585mila euro. Può darsi che la modifica sia dovuta a una mera motivazione economica: una no profit – quando muore – non può dividere la cassa rimanente tra i soci. Per non perdere i denari, il duo potrebbe dunque aver deciso – prima della chiusura definitiva del progetto – di modificare la ragione sociale. Sia come sia, amministratore delegato sarà sempre Bellodi, che ora potrà fare affari insieme ai suoi collaboratori alla luce del sole senza dover curare un “council” che una maligna informativa della Uif ipotizzava costituito «ad hoc per far rientrare in Italia capitali detenuti dal signor Bellodi negli Emirati Arabi».

 

© Riproduzione riservata