Sarà il ministro dell’interno Matteo Piantedosi a rappresentare il governo il 2 agosto a Bologna, alle cerimonie ufficiali per la commemorazione della strage alla stazione di 43 anni fa.

Una scelta ineccepibile, per il suo ruolo e per il suo passato: tra il 2017 e il 2018 è stato prefetto proprio a Bologna, dopo una carriera ventennale nella medesima città, dove si è anche laureato in giurisprudenza.

E poi per il suo profilo di tecnico non appartenente a un partito politico: circostanza senz’altro rilevante, trattandosi del primo 2 agosto con alla guida del governo una forza (e una presidente del Consiglio) orgogliosamente di destra-destra. Cioè di quell’area politica da cui provengono i responsabili della strage.

L’attenzione vigile

La liturgia del 2 agosto è da anni definita: la mattina l’incontro ufficiale del sindaco e delle autorità (Piantedosi compreso) con i familiari delle vittime, poi il corteo fino in piazza Medaglie d’Oro, davanti alla stazione, e l’intervento del presidente dell’Associazione tra i familiari delle vittime Paolo Bolognesi.

Si tratta di un corteo a cui mai la città – ma non solo – ha fatto mancare la propria partecipazione, che anzi negli ultimi anni è stata sempre più massiccia: a dimostrazione di come la memoria della tremenda ferita inferta nell’estate del 1980 a Bologna, e all’Italia intera, pur tra mille difficoltà sia stata efficacemente coltivata.

Ma l’elenco delle iniziative promosse in questi giorni a Bologna e nell’area metropolitana è ricchissimo. E lo stesso Bolognesi ammette di non ricordare con esattezza tutti gli eventi a cui l’associazione familiari è stata invitata, da istituzioni e soprattutto altre associazioni: segno anche questo di un’attenzione della comunità.

Un’attenzione vigile, visto che attorno alla strage di Bologna depistaggi e “distrazioni” sono sempre all’ordine del giorno, da decenni e ancora oggi.

La storia giudiziaria

Il manifesto che l’associazione aveva diffuso in occasione del 2 agosto dello scorso anno faceva tesoro dell’esito del processo Bellini/mandanti.

Recitava infatti: «La sentenza di primo grado del processo ai mandanti conferma: la strage è stata organizzata dai vertici della loggia massonica P2 protetta dai vertici dei servizi segreti italiani ed eseguita da terroristi fascisti».

Quello di quest’anno va anche oltre: «Bologna 2 agosto 1980: un ponte tra la strategia della tensione e le bombe del 1992-93».

È una formulazione che prende atto degli ultimi sviluppi giudiziari relativi a Paolo Bellini, condannato nell’aprile 2022 in primo grado all’ergastolo per la strage alla stazione, ma che ora è indagato anche dalle procure Dda di Caltanissetta e Firenze per quella di Capaci e per le bombe del 1993.

Bellini che peraltro è passato nelle scorse settimane dai domiciliari al carcere, dopo che quegli stessi magistrati, intercettandolo, avevano appreso di sue minacce nei confronti della ex moglie (teste chiave nel processo contro di lui a Bologna) e del figlio del presidente della Corte d’assise che ha emesso la sentenza.

Quello relativo alla strage di Bologna è però un cantiere giudiziario in continuo movimento.

Processi

A settembre, dopo la pausa estiva, andrà rapidamente a conclusione il processo d’appello a Gilberto Cavallini, l’esponente dei Nar (già pluriergastolano) condannato in primo grado nel gennaio 2020 ancora al carcere a vita per aver fornito l’apporto logistico a Francesca Mambro, Valerio Fioravanti e Luigi Ciavardini, esecutori materiali con condanne da decenni passate in giudicato (ma tutti da tempo tornati in libertà).

E sempre in autunno si chiuderà un altro processo non marginale: quello per false testimonianze rese proprio nel corso del processo Cavallini in assise, che vede tra gli imputati lo stesso Ciavardini, da tempo attivo in cooperative di recupero di ex detenuti.

E i suoi rapporti in quest’ambito proprio con Cavallini sono di recente emersi, sollevando inevitabili polemiche. Mentre entro fine anno dovrebbe scattare l’appello anche per Bellini.

In Sicilia

È però dalla Sicilia, pochi giorni fa, che la giustizia ha messo nel proprio mirino un nome meno noto alla pubblica opinione ma estremamente importante: quello di Stefano Menicacci, negli anni Settanta parlamentare del Movimento sociale ma soprattutto storico avvocato dello scomparso leader neofascista Stefano Delle Chiaie, per via di un progetto di “attenzionamento” nei confronti di magistrati ostili alla destra.

E non si tratta di archeologia giudiziaria, bensì di un disegno perseguito ai giorni nostri: così dimostrano le intercettazioni, da cui emerge anche un piano per occultare una presunta presenza in Sicilia di Delle Chiaie alla vigilia della strage di Capaci.

Quasi novantaduenne, Menicacci è finito ai domiciliari nell’ambito di un’inchiesta che ha visto perquisito anche Adriano Tilgher, braccio destro di Delle Chiaie alla guida di Avanguardia nazionale: cioè l’organizzazione, sciolta dal governo nel 1976 ma in realtà mai dissoltasi, di cui faceva parte lo stesso Bellini.

Menicacci era peraltro sfilato come teste anche al processo Bellini, al cui termine la Corte ha rinviato gli atti della sua deposizione alla Procura, affinché valuti l’ipotesi di procedere nei suoi confronti per il reato di depistaggio.

La pista palestinese

In questo quadro in costante aggiornamento, la cosiddetta “pista palestinese” per la strage di Bologna appare ormai definitivamente sorpassata.

Nonostante la sua archiviazione giudiziaria, che risale ormai al 2015, chi la sostiene non ha mai smesso di riproporla, facendo leva sulle cosiddette “carte di Giovannone”, cioè i documenti dell’allora capocentro del Sismi a Beirut nei quali - si è sostenuto per anni - sembrava dovesse trovarsi la verità sulla strage (e pure su quella di Ustica del 27 giugno 1980).

Finalmente desecretate, si è appurato invece che quelle carte nulla c’entrano con le due stragi, come dimostrato proprio su questo giornale da chi scrive assieme a Paolo Persichetti.

E la stessa Procura generale di Bologna, al processo d’appello a Cavallini, ha nuovamente smontato ogni ricostruzione alternativa, seguendo di fatto l’analisi che già era stata pubblicata da Domani.

Con in più la chicca di un clamoroso svarione dell’ex parlamentare Carlo Giovanardi, secondo il quale un documento del Sismi relativo a possibili minacce all’Italia da parte palestinese era datato aprile 1980. Mentre invece si trattava dell’aprile 1981, cioè a stragi da tempo avvenute.

Negare l’evidenza

Dunque è l’ennesima pista senza sbocchi, quella palestinese. E infatti, prima di rimettere il mandato, gli storici difensori di Cavallini (gli avvocati Gabriele Bordoni e Alessandro Pellegrini) si sono visti respingere ogni proposta di rinnovamento degli atti in appello, per la semplice ragione che nulla di nuovo avevano prodotto che non fosse già stato vagliato in precedenza.

Eppure anche in questi giorni, come ogni anno in prossimità del 2 agosto, il fronte innocentista sta rilanciando una matrice mediorientale per la strage, come sempre attraverso testate e siti d’area, vecchi e nuovi.

È il caso di Armando Mantovani, capogruppo della Lega a Lonate Pozzolo, in provincia di Varese. Come ha riportato Repubblica, in in consiglio comunale ha negato la matrice neofascista della strage, parlando di «un vagone palestinese, che è stato fatto esplodere apposta a Bologna».

O dell’avvocato Valerio Cutonilli, con un’ampia intervista al “secoloditalia.it” (la versione cartacea da anni non esiste più). Oppure di Vladimiro Satta, documentarista del Senato che, in un puntiglioso saggio sul contesto storico della strage sviluppato nella sentenza Bellini/mandanti, lamenta ripetutamente la scarsa considerazione da parte della Corte delle proprie opere e di quelle di ricercatori in linea con il suo pensiero.

Per pubblicarlo, Satta ha scelto una tribuna online nota soprattutto ad addetti di altro genere di materie.

Si tratta di “Key4biz”, che si auto rappresenta come «quotidiano italiano sulla digital economy e sulla cultura del futuro, focalizzato su Internet, Media, Cybersecurity, Telecoms, Smart City, Energia, Intelligenza artificiale, Blockchain, Robot e Games»: roba insomma che neppure esisteva, quando esplose la bomba a Bologna.

Il direttore responsabile di tale testata è però il pubblicista Raffaele Barberio, che dallo scorso febbraio fa parte dello staff del sottosegretario all’innovazione Alessio Butti, di cui cura immagine e promozione pur mantenendo la citata direzione, con un incarico di 11 mesi (compenso 80mila euro): un rapporto cementato dalla lunga campagna che Key4biz ha dedicato nel 2022 alla partita della rete unica nazionale, il principale dossier sulla scrivania del sottosegretario, di cui Barberio ha sposato le tesi.

Il partito di Butti è ovviamente Fratelli d’Italia, quello cioè da sempre in prima linea nel cercare di riscrivere la storia della strage: non si contano le iniziative parlamentari in questo senso, per opera soprattutto del deputato romano Federico Mollicone.

Ma lo dimostrano gli stessi tweet che Giorgia Meloni ha pubblicato negli ultimi anni in occasione del 2 agosto, tesi a negare la fondatezza delle sentenze, da tempo definitive, che hanno attribuito la responsabilità del massacro ai Nar. Ma allora Meloni era solo leader di un partito. Chissà se quest’anno, nelle vesti istituzionali di presidente del Consiglio, twitterà diversamente.

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