L’ultimo decreto Ristori bis prevede comunicazioni settimanali sugli infetti per classificare le regioni. Ma dopo giorni di attesa, non si vedono: appena saranno noti, arriverà un’altra stretta
Anche oggi, la trasparenza arriva domani, forse. Ma in ogni caso non nei termini che erano stati originariamente stabiliti. Il tema è delicato, si parla di Covid-19, ma governo e Regioni, nonostante l’impegno preso con la norma trasparenza inserita nel decreto Ristori bis, sono in ritardo sulla pubblicazione dei monitoraggi regionali. Secondo la norma, per cui il via libera è arrivato sabato scorso in Consiglio dei ministri, il ministero della Salute ogni settimana dovrebbe pubblicare i risultati del monitoraggio sul proprio sito e inviarli ai presidenti delle Camere.
Eppure, dell’andamento dei contagi nelle singole regioni, così come di quelli avvenuti a scuola, ultimamente non c’è traccia. Tradizionalmente, l’appuntamento per il monitoraggio regionale con gli esperti dell’Istituto superiore di Sanità era fissato di venerdì. Poi, due settimane fa, la notizia che sarebbe stato anticipato al martedì: domenica, però, dei dati ancora nessuna traccia, né martedì, né venerdì e neppure nel weekend. L’unico documento che alla fine è apparso è l’analisi della situazione delle regioni nel periodo tra il 19 e il 25 ottobre, declinata finalmente secondo i 21 indicatori che poi decidono il colore (e quindi, le restrizione applicate) di ciascuna regione.
Il meccanismo prevede che le regioni che si trovano già nello scenario 4 definito dall’Iss (quello più grave, in cui l’Rt, il misuratore del contagio, si trova oltre 1,5) in caso di risultanza di livello di rischio medio dedotto dai 21 indicatori, viene classificata come arancione, mentre se il rischio risultante è alto diventa rossa. Le altre regioni, in scenario 3, in caso di rischio alto si dipingono di arancione, altrimenti restano gialle. Quel che rimane oscuro, però è il processo con cui si arriva alla definizione dell’analisi degli indicatori. La Cabina di regia formata da tecnici interviene per dirimere le incertezze sugli indicatori, a cui le risposte date dalle regioni non sempre sono univoche.
Ieri, nel pomeriggio, si è riunita la Cabina di regia per l’analisi dei dati regionali. A seguire, la riunione del Comitato tecnico scientifico che decide sul destino delle Regioni a rischio aggravamento e poi, probabilmente oggi, lunedì, l’ordinanza del ministro della Salute Roberto Speranza. A soli cinque giorni dall’ultimo decreto del presidente del Consiglio, pubblicato il 3 novembre scorso, una nuova misura che potrebbe trasformare da gialle ad arancioni, o addirittura rosse, diverse regioni: le prime candidate sono sicuramente Campania e Liguria, ma anche su Veneto, Lazio e Toscana rimangono dubbi.
Dati falsati?
L’altro rischio che si sta correndo è che i dati possano non essere del tutto veritieri. Secondo il consigliere scientifico del ministro della Salute Walter Ricciardi le regioni inviano i dati «tardi e male», anche l’Iss li ha in alcuni casi classificati come inaffidabili. Certo, in un’intervista a Repubblica di ieri il presidente dell’Istituto Silvio Brusaferro ha ribadito che non ha ragione di dubitare dei numeri che gli arrivano, ma certi cambiamenti repentini nelle disponibilità di letti e terapie intensive e numeri dei ricoveri di rispettivamente Campania e Liguria lasciano qualche interrogativo inevaso. Nel caso della regione governata da Giovanni Toti, che ha ribadito di non aver «nulla da nascondere», è addirittura stato aperto un fascicolo della procura per verificare che quanto trasmesso a Roma corrisponda davvero alla verità.
In più, c’è il fatto delle tempistiche: se infatti le Regioni non provvedono a fornire i propri dati per tempo, il risultato della valutazione per indicatori è automaticamente un rischio alto. Quindi, a seconda dello scenario da cui partono le regioni, la possibilità è di diventare arancioni o addirittura rosse. È ciò che è successo alla Valle d’Aosta, che non ha consegnato i dati per tre settimane e si è ritrovata con una valutazione del rischio alta, che, combinata con lo scenario 4 (la Val D’Aosta ha un Rt ben oltre 1,5) l’ha fatta classificare come regione rossa.
C’è stato un occhio di riguardo per Veneto e Liguria, che a loro volta non hanno fornito dati completi per un certo periodo di tempo (seppur minore della Val D’Aosta), e per il momento sono state classificate come gialle. Se però non dovessero esserci riscontri nei nuovi monitoraggi in arrivo in questi giorni, l’aggravamento della valutazione è quasi inevitabile.
Le ragioni del ritardo
Insomma, dopo che abbiamo passato nove mesi a imparare cosa fosse Rt e come rapportare il numero dei contagi quotidiani ai tamponi effettuati per valutare correttamente aumenti e diminuzioni, ora non abbiamo dati su cui esercitare le nostre nuove competenze. E, quando vengono pubblicati, come nel caso del documento relativo alla penultima settimana di ottobre, si tratta di file Pdf non utilizzabili per ulteriori estrazioni di dati o valutazioni di tecnici terzi. I motivi sono diversi: sicuramente l’Iss è un ente non abituato a fornire elaborazioni a un ritmo elevato, ma probabilmente in questo caso ci sono altri tre elementi a spingere contro la pubblicazione tempestiva dei numeri: innanzitutto, la ritrosia delle Regioni a vedere i loro dati pubblicati. Per quanto gli esperti si sforzino di ribadire che i numeri non esprimono giudizi né pagelle, è inevitabile che, dove i numeri si aggravano di giorno in giorno o dove addirittura emergano insufficienze strutturali come in Calabria, l’opinione pubblica si faccia dubiti giustamente dell’operato del governo regionale.
Inoltre, il ministero ha tutto l’interesse a concedere alle regioni in ritardo ancora qualche giorno per completare l’invio dei propri dati. Infatti, se dovessero essere colmate le lacune delle ultime settimane, l’aggravamento della posizione di alcune Regioni sarebbe inevitabile. Il terzo aspetto è legato a doppio filo con la speranza che le regioni facciano avere tutte le informazioni: annunciare un nuovo aggravamento della situazione a pochi giorni dall’ultimo dpcm, infatti, rischia di sembrare l’ammissione del fatto che l’ultimo intervento è stato, in poche parole, inutile.
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