Qualcuno avvisi Giorgia Meloni che l’industria continua a soffrire. Tra l’ex Ilva che naviga ancora a vista in attesa di definire l’eventuale compratore, il comparto dell’automotive che affonda con Stellantis capofila, e le crisi aziendali che piombano sul tavolo del ministero delle Imprese e del made in Italy (Mimit), come quella della Beko, il quadro si deteriora di giorno in giorno. Anche perché manca una politica industriale degna di questo nome da parte del governo.

I dati ufficiali sulla produzione sono una mattanza mensile, che la narrazione meloniana cerca di nascondere sotto le insegne di un presunto miracolo italiano dell’economia e dell’occupazione. A settembre, infatti, l’Istat ha certificato un calo della produzione industriale del 4 per cento rispetto al 2023, ad agosto la diminuzione era stata del 3,3 per cento, a luglio era quantificata del 3,3 per cento. E così via, ogni mese un bollettino disastroso.

Dati alla mano, quindi, per quasi tutto il 2024 ha dominato il segno negativo per l’industria italiana. Il tutto mentre la presidente del Consiglio ha giocato a fare la dura con le realtà produttive, a cominciare da Stellantis degli Elkann.

Cambio di passo

Di fronte agli indicatori preoccupanti e alle dimissioni di Carlos Tavares dal ruolo di amministratore delegato, la premier sembra decisa ad aprire le porte del confronto. A far trapelare il pensiero corrente dentro Fratelli d’Italia sono le parole di alcuni pretoriani.

Su tutti, Augusta Montaruli, ex sottosegretaria e deputata legatissima a Meloni: «Chiediamo un impegno concreto a Stellantis in queste ore, dopo l’uscita di scena di Tavares». Segnali che arrivano a mezzo stampa, ma che testimoniano un ragionamento sulla possibilità di avviare un confronto con la famiglia Elkann, finora vista come un’avversaria perché proprietaria di un giornale critico verso il governo, come La Repubblica.

Ma, appunto, ora che è stato individuato il capro espiatorio nella figura di Tavares, inviso alla destra, si può pensare a un cambio di passo nei rapporti. A palazzo Chigi circola un approccio prima di tutto pragmatico, perché le ricadute sul paese possono essere comunque pesanti.

Le opposizioni sono partite all’attacco e hanno già chiesto a Meloni di riferire in parlamento sulla situazione. Qualcosa si muove pure sull’aspetto pratico. Dopo il taglio di 4,6 miliardi di euro del fondo automotive, previsto in manovra per fare cassa, adesso c’è una possibile correzione di rotta con misure ad hoc a sostegno del comparto sempre nella legge di Bilancio in esame alla Camera.

Del resto nelle scorse settimane il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, aveva promesso un impegno: «Valuteremo assieme al ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti se sia possibile incrementare il fondo per raggiungere il sostegno alla filiera della componentistica in questa fase, perché resti competitiva a livello globale».

Salvini all’attacco

Ma non è un percorso facile, non tutti vogliono abbracciare la tesi di scurddammece o’ passato sul nodo Stellantis. C’è un problema enorme per Meloni e si chiama Matteo Salvini. Il vicepremier non vuol sentire ragioni su una tregua con la casa automobilistica. Anzi vuole continuare la propria guerra personale con Elkann in nome del populismo in ogni ambito. «Chi ha gestito Stellantis dovrebbe restituire il denaro pubblico preso e non chiederne altro», ha attaccato il leader della Lega.

E ha alzato addirittura il tiro: «Elkann deve venire in parlamento con un assegno che ricordi quanti miliardi di euro di denaro pubblico questa azienda ha incassato negli anni a fronte di quali risultati economici, quali chiusure, quali licenziamenti e cassa integrazione».

Nel governo, insomma, non c’è una reale volontà di sedersi al tavolo con gli eredi dell’ex Fiat. Un vicolo cieco da cui in qualche modo bisognerà uscire. Soprattutto in caso di stanziamenti nella legge di Bilancio, come fatto trapelare da fonti governative.

Nello scontro tra pesi massimi resta schiacciato il ministro delle Imprese Urso, che è ufficialmente titolare del dossier, oltre che di altri capitoli complessi. A cominciare dal futuro della siderurgia italiana. Sull’ex Ilva gravano ancora molte incognite ed è slittato il termine per la presentazione di offerte vincolanti all’acquisto. Se ne parla a inizio 2025. Ma lo stabilimento di Taranto è solo il pezzo di un mosaico in cui è difficile inserire i pezzi. Entro giugno dello scorso anno Urso aveva promesso un piano siderurgico nazionale per dare un nuovo impulso al comparto.

La presentazione è arrivata in ritardo a conferma di un percorso complicato. Quindi ha spostato il discorso buttandolo sull’Europa. «La mia intenzione è presentare un documento di politica industriale in Europa, un non-paper», ha detto in un recente incontro in Umbria sull’acciaieria di Terni. Buoni intenti che non trovano però riscontri reali.

Anzi i problemi si addensano sul tavolo del ministro delle Imprese. È scoppiata la crisi della Beko, colosso degli elettrodomestici, che ha annunciato quasi duemila esuberi con la chiusura di tre impianti entro il 2025. L’allarme rosso intorno a un altro settore che fa segnare più di qualche difficoltà. Con la parziale consolazione che la situazione non è grave come l’automotive.

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