Le parole pronunciate da Alfredo Bazoli nell’aula del Senato il 9 maggio e lunedì 26 maggio nella sua intervista al Corriere della Sera spingono a ragionare su cosa ha perso l’Italia il 28 maggio 1974, mezzo secolo fa. Oggi Bazoli è senatore del Pd, aveva quattro anni e cinque mesi quando la mamma Giulietta Banzi fu uccisa dalla bomba esplosa in piazza della Loggia a Brescia.

Nel racconto del figlio, stimato e schivo uomo delle istituzioni, emerge il dolore personale di un vuoto vissuto con dignità, ma anche il ritratto di una famiglia democratica: il papà Luigi Bazoli era assessore all’Urbanistica, democristiano, fratello di Giovanni Bazoli, il futuro presidente del rinato Banco Ambrosiano dopo gli anni della P2, la madre Giulietta militava nella Cgil Scuola e in Avanguardia operaia.

Una famiglia della Costituzione, in senso letterale perché Stefano Bazoli, il papà di Luigi e Giovanni, il nonno di Alfredo, fu deputato democristiano all’Assemblea Costituente. Ma anche in senso più largo, perché in quella, come in tante altre famiglie, si respiravano i confronti, le passioni e anche le divisioni della prima vita repubblicana.

Figlio della Costituzione era Walter Tobagi, ucciso nello stesso giorno da una banda di terroristi rossi il 28 maggio di sei anni dopo. La Costituzione era l’obiettivo dell’eversione degli anni Settanta, del terrorismo rosso e del terrorismo nero, neofascista, che firmò la strage di piazza della Loggia, oltre a quelle di piazza Fontana e della stazione di Bologna.

Le inchieste e le sentenze della magistratura e alcuni libri usciti di recente (Maurizio Dianese e Gianfranco Bettin, La tigre e i gelidi mostri, Feltrinelli, e Paolo Biondani, La ragazza di Gladio, Fuoriscena) lo ripetono con chiarezza. Non parliamo più di segreti e di misteri. Non è vero che non si sa nulla di mandanti e colpevoli. I colpevoli sono stati individuati nella manovalanza neofascista, «i tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste» di cui scrisse Pier Paolo Pasolini sul Corriere il 18 novembre 1974, con intuizione politica e letteraria («Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi»).

I mandanti erano al vertice di quella che nel 2016 la corte d’assise di appello di Milano ha definito «malavita istituzionale» dentro lo Stato, condannando all’ergastolo Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte, ovvero uno dei capi di Ordine nuovo nel Triveneto e un informatore del Sid: «Una parte non irrilevante degli apparati di sicurezza dello Stato, centrali occulte di potere hanno incoraggiato e supportato lo sviluppo dei progetti eversivi della Destra estrema e hanno sviato l’intervento della Magistratura, rendendo impossibile la ricostruzione dell’intera rete di responsabilità». Quelli che, per esempio, a poche ore dalla strage di Brescia ordinarono di lavare il selciato della piazza, distruggendo le prove.

Nel suo libro Biondani ripercorre le stratificazioni italiane: vertici dell’Arma dei carabinieri, caserme di Gladio, cimiteri. C’è nitida, inattaccabile, la «verità d’insieme», che è il sottotitolo del libro di Dianese e Bettin, espressione del giudice Mario Amato, ucciso a Roma il 23 giugno 1980 dai Nar, gli stessi condannati per la strage di Bologna di quaranta giorni dopo. Compresa l’evidenza della militanza di numerosi esecutori di quelle stragi nelle sigle della destra politica, quella extraparlamentare e quella degli eredi di Salò in parlamento, il Movimento sociale italiano di Giorgio Almirante e di Pino Rauti.

Neri e rossi

Di recente Almirante è stato applaudito insieme a Enrico Berlinguer durante la convention di Fratelli d’Italia che governa il Paese e che ha nel simbolo la fiamma del Msi. Ma sono storie opposte. Il Pci di Berlinguer ruppe con l’album di famiglia, il mito della rivoluzione mancata che all’inizio aveva alimentato il terrorismo brigatista, si identificò con la difesa dei valori costituzionali, pagando un prezzo altissimo in consenso e in sangue versato.

Gli eredi di Almirante possono dire altrettanto? Hanno aperto un dibattito pubblico, libero e sincero, su cosa furono quegli anni? Dovrebbero avere interesse a chiederlo gli intellettuali liberali sempre critici con la sinistra e sempre indulgenti con la destra, dovrebbe farlo soprattutto chi fa una equazione tra antifascismo e anticomunismo: l’anticomunismo fu l’alibi della mattanza.

Senza questa verità d’insieme non si fa memoria comune di quelle stragi e del loro obiettivo politico: la Costituzione, che del neofascismo di Brescia era il bersaglio, e delle sue vittime innocenti la casa.

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