La premier è ferma sul nome di Marini e sa che il Colle non interferirà. La tentazione del voto anticipato, sapendo che vincerebbe ancora
Lo stop al governo per l’elezione a giudice costituzionale di Francesco Saverio Marini deve tramutarsi in un contropiede: nei confronti delle opposizioni, ma anche degli alleati di maggioranza. Questo è l’obiettivo di Fratelli d’Italia e della premier Giorgia Meloni, che è decisa a mantenere la promessa fatta al suo consigliere giuridico e non intende fare passi indietro nei confronti di nessuno.
Nel frattempo si è tramutato in veleno. Matteo Renzi ha rivelato la notizia di un pranzo avvenuto tra Ignazio La Russa e la senatrice di Italia Viva, Dafne Musolino, nel ristorante di Palazzo Madama, un'occasione per fare pressione e chiederle di passare in maggioranza, votando Marini. Contattata da Repubblica, Musolino ha confermato dicendosi sotto shock: «Proposta irricevibile».
Nessun passo indietro, dicevamo. La linea viene espressa per bocca del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giovanbattista Fazzolari, che, parlando con Il Foglio e Il Messaggero, spiega che si andrà avanti a oltranza a votare fino a sfiancare le opposizioni, anche a costo di tirare in ballo il Quirinale, tacciando l’opposizione di ignorare i moniti di Sergio Mattarella sulla necessità di eleggere presto un giudice.
La mossa, rischiosa, di utilizzare il Colle come arma contro le opposizioni, muove da una convinzione: dal presidente della Repubblica non arriveranno richiami, né moral suasion. Sergio Mattarella si è già espresso chiedendo di fare presto e, formalmente, la maggioranza sta facendo proprio questo. Sostanzialmente, però, è certo che eleggere un giudice senza sedersi al tavolo delle trattative con le opposizioni è impossibile, vista la necessità di maggioranza qualificata dei tre quindi.
Con il Quirinale “silenzioso”, dunque, ecco il contrappasso nei confronti del fragile campo largo. La maggioranza scommette sul fatto che, appena un gruppo entrerà in aula, sarà liberi tutti. E, nel segreto dell’urna, i numeri potranno essere trovati. Del resto il muro ha già iniziato a franare, con Carlo Calenda che si è smarcato dicendo che al prossimo voto Azione sarà in aula.
L’elezione del giudice della Consulta è diventata un paradigma della crescente frustrazione della premier, sia verso i suoi sia nei confronti degli alleati. A irritare la premier è stato anzitutto il tradimento di trovare i suoi messaggi via chat pubblicati sui giornali e divulgati da una “talpa”, un «infame» lo ha definito Meloni, che addirittura le ha fatto dire che «alla fine mollerò per questo».
Sono seguite anche le bizze degli alleati, da cui è filtrato un certo distacco nei confronti del blitz: hanno partecipato sì, ma gli assenti, soprattutto leghisti, sono sembrati un po’ troppi nonostante la precettazione. E anche Forza Italia, che sta combattendo sul tavolo parallelo della Rai, ha dimostrato in queste ultime ore di essere pronta a mettere sul tavolo una lista di suoi nomi alternativi a Marini. Tre pronti: il vicepremier Francesco Paolo Sisto, il senatore Pierantonio Zanettin o addirittura la ministra Elisabetta Casellati. Inutili, per ora, visto che l’indicazione è quella di andare avanti con il costituzionalista apprezzato da Meloni.
I voti
Ma i fronti aperti sono molti. C’è la ratifica della nomina della presidente Rai, che FI vorrebbe fosse Simona Agnes. Anche in questo caso, per superare lo scoglio della commissione di Vigilanza, la maggioranza ha bisogno di più voti di quelli disponibili. Voti che il centrodestra non riesce a trovare. Così anche la riunione convocata per oggi andrà deserta.
Nel frattempo si è aperto lo scontro sulla nomina del nuovo presidente della Giunta per le autorizzazioni dopo le dimissioni di Enrico Costa. Di prassi il posto tocca all’opposizione ma il capogruppo di FdI alla Camera, Tommaso Foti, ha fatto capire che non sarebbe più così scontato, dopo l’Aventino per la Consulta: «Sulla Corte costituzionale vale il principio del veto? Se questo è lo schema la maggioranza saprà farne tesoro».
Una convinzione, tuttavia, alberga in Meloni: la stabilità del governo nei sondaggi dipende da lei e da come è stata capace di mantenere la fiducia degli elettori. Con il partito che sfiora ancora il 30 per cento dei consensi, secondo l’ultimo sondaggio Swg, la premier sa di essere l’unica dei tre leader di centrodestra a poter contare su un consenso personale per ora inscalfibile.
Altrettanto non possono dire né il leader di Forza Italia, Antonio Tajani, né il leghista Matteo Salvini, alle prese con l’ascesa del generale Roberto Vannacci e un partito sempre più in difficoltà. «Salvini e Tajani da soli non vanno da nessuna parte», dice una fonte di FdI interpellata sull’ipotesi di una rottura dell’alleanza del centrodestra.
Anche da questa convinzione nascerebbe lo sfogo delle sue dimissioni consegnato alla chat interna del partito, con la ragionevole consapevolezza che poteva uscire. Nei momenti di massima frustrazione a palazzo Chigi si ragiona sul fatto che eventuali elezioni anticipate regalerebbero a FdI di nuovo la maggioranza relativa, rendendo ancora più evidente la distanza con gli alleati.
Se si tornasse alle urne con l’attuale legge elettorale il risultato rimarrebbe invariato, e anzi favorirebbe ancora di più FdI. Al netto del muro eretto per eleggere il giudice costituzionale, le opposizioni non sono ancora state in grado di organizzare una alternativa credibile e tra il Pd e il Movimento 5 stelle la distanza in questi giorni è solo aumentata.
Con un paradosso, però. Lo schema rimane vero con il Rosatellum e con un sistema parlamentare, mentre altri scenari si aprirebbero se venisse approvato il premierato – la «madre di tutte le riforme» – che costringerebbe a riscrivere la legge elettorale, anche con l’ipotesi di doppio turno.
Risultato: Meloni sa che, a sistema invariato, la sua leadership avrà vita ancora lunga. Anche se, per garantirsela, fosse necessario iniziare a ragionare seriamente di elezioni anticipate.
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