- Nella giornata di domenica 21 novembre, il primo ministro Abdulla Hamdok, fino a sabato agli arresti domiciliari, è tornato libero e ha annunciato un accordo per un «governo tecnocratico».
- L’intesa, però, siglata con il generale Abdel Fattah al-Burhan, capo dell’esercito e leader dei golpisti, semina più insoddisfazioni che apprezzamenti.
- Resta da vedere, a questo punto, quali saranno i nuovi bilanciamenti nel potere e quali attori vecchi e nuovi si affacceranno dalle parti del palazzo presidenziale a Khartoum.
A nemmeno un mese di distanza, in Sudan sembra già rientrato il colpo di stato che ha violentemente interrotto l’esperienza del Consiglio sovrano di transizione nato nell’agosto 2019, all’indomani della cosiddetta primavera sudanese. Nella giornata di domenica 21 novembre, il primo ministro Abdulla Hamdok, fino a sabato agli arresti domiciliari, è tornato libero e ha annunciato un accordo per un «governo tecnocratico».
L’intesa, però, siglata con il generale Abdel Fattah al-Burhan, capo dell’esercito e leader dei golpisti, semina più insoddisfazioni che apprezzamenti. Neanche il tempo di ratificarla, infatti, che migliaia di dimostranti sono tornati a sfilare nelle vie delle principali città per urlare la loro rabbia. Non più, però, solamente verso i militari: bersaglio prescelto, in questo caso, è stato proprio lo stesso Hamdok, reo di aver tradito il popolo e di aver frustrato le speranze di veder salire al potere per la prima volta in Sudan un esecutivo interamente formato da civili.
Hamdok ha dichiarato che tra i motivi della sua scelta c’è la volontà di mantenere i guadagni economici raggiunti negli ultimi due anni e di condurre il Paese pacificamente verso le elezioni del 2023. I militari, invece, fanno sapere in una nota ufficiale che il golpe è stato eseguito al fine di portare alcune «correzioni».
La popolazione comprensibilmente diffida di entrambe le posizioni, visto che il periodo precedente al coup era stato segnato da una fase di gravissima recessione economica con tagli perentori e prezzi dei beni di primissima necessità saliti alle stelle, e che la «correzione» ha fatto oltre 40 morti, un numero ben più alto di feriti e di arresti e gettato il Paese in una crisi al buio molto seria.
La notizia del ritorno al percorso di transizione, al di là dei leciti dubbi, è certamente da accogliere con sollievo perché mette fine a un periodo di grandi disordini e riaccende le speranze che una delle poche primavere arabe con esiti parzialmente positivi, non si trasformi in inverno rigido come in molti altri casi.
I vecchi nomi
Nei primi mesi del 2019, senza particolare spargimento di sangue, la rivoluzione sudanese mise fine a uno dei regimi più duri della storia contemporanea, quello di Omar al-Bashir.
Salito al potere nel 1989 con un colpo di stato sostenuto dal radicale Hassan al-Turabi, instaurò una classica dittatura islamica. È lui a offrire ospitalità a Osama bin Laden negli anni ’90 e a inanellare una serie di orrori che nel 2009 gli sono costati la condanna dell’Aia, con conseguente richiesta di estradizione - mai eseguita - per crimini di guerra e contro l’umanità. Tra gli atti più efferati, si ricorda la soppressione delle rivolte nel Darfur: 400mila morti e 2,5 milioni di profughi.
Resta da vedere, a questo punto, quali saranno i nuovi bilanciamenti nel potere e quali attori vecchi e nuovi si affacceranno dalle parti del Palazzo presidenziale a Khartoum.
La partita tra civili e militari, non si gioca solo sui piani politico e ideologico. Sebbene l’esecutivo di Abdallah Hamdok fosse composto al 50 per cento da rappresentanti della società civile, solo il 12 percento delle risorse nazionali finiva sotto il suo controllo. Il resto se lo spartisce l’esercito che detiene industrie, terreni, infrastrutture, banche: nel caso di una completa fuoriuscita dal comando il potere economico diminuirebbe verticalmente.
Anche per questo, destano molti timori i vecchi nomi che hanno ripreso ad aleggiare (o non hanno mai smesso) sopra il Sudan. Primo fra tutti, neanche a dirlo, al-Bashir, attualmente in carcere nella capitale ma mai completamente uscito di scienza.
Hamdok pensa a lui quando nei giorni immediatamente successivi al golpe, parla di «forze dell’oscurità» legate al «precedente regime». Subito dopo, c’è l’ingombrante figura di Salah Gosh, ex direttore della sicurezza nazionale e braccio destro di Bashir, accusato di crimini contro l’umanità ed in esilio in Egitto. Con un passato al libro paga della Cia, trama nell’ombra e continua a conservare una fetta di potere e ascendenti tra le fila dell’esercito. C’è poi l’immarcescibile Mohamed Hamdan “Hemeti”, passato alla storia più che per il ruolo di vice di Hamdok nel governo di transizione, per la sua carica di leader dei Janjaweed, formazione paramilitare imputata di brutali abusi e stragi. Le sue truppe ora si chiamano Rapid Support Forces, ma la ferocia è sempre la stessa e la presa su interi ranghi dell’esercito, inalterata.
Se il primo ministro Hamdok, aiutato dalla comunità internazionale e sostenuto da un recuperato feeling con la popolazione, riuscirà a reggere l’urto e approfittare di un esercito fragile e spaccato, incapace di formare un esecutivo militare e costretto clamorosamente a retrocedere al punto di partenza, la transizione sudanese, per quanto a fatica, potrà riprendere il suo corso.
© Riproduzione riservata