- Dopo il colpo di stato che ha destituito il primo ministro Abdalla Hamdok in Sudan i militari stanno cercando di rinegoziare la transizione.
- Durante la guerra fredda le sponde del mar Rosso non interagivano tra di esse se non in casi rarissimi, ad esempio per ciò che concerne l’ecologia ambientale del mare.
- Oggi il conflitto yemenita, lo scontro violento tra Addis Abeba e Tigray e la vicenda sudanese hanno trasformato il Corno d’Africa e il Golfo di Aden in un unico scenario globale di tensione.
Le caratteristiche del colpo di stato in Sudan sono diverse dal solito putsch militare a cui eravamo abituati. La folla continua a manifestare a Khartoum e nelle altre grandi città senza temere, almeno così sembra, una possibile repressione. Ogni giorno la gente scende in strada, mentre lo scorso venerdì nella capitale si è tenuto un raduno con oltre quattro milioni di partecipanti.
L’esercito e le forze di reazione rapida dei paramilitari per ora controllano la situazione senza forzare: ci sono state soltanto poche vittime. Da una parte si teme che il tutto si risolva in un massacro; dall’altra si negozia perché il processo di transizione riprenda da dove si è interrotto con il colpo di stato.
Il primo ministro Abdalla Hamdok è stato liberato ma rimane sotto continuo controllo. Non è neanche la personalità più invisa ai militari come lo sono invece alcuni dei suoi ministri: il portavoce del governo civile Faisal Mohamed Saleh o il membro del consiglio di sovranità Mohamed al Faki Soleiman, entrambi detenuti. La resistenza della società civile rende complicata la posizione del presidente Abdel Fattah al Burhan che ha condotto il golpe: sembra che i sudanesi non abbiano paura di essere massacrati e sfidano i militari a viso aperto.
Ironicamente lo specialista del Sudan Roland Marchal sostiene che i militari «vogliono fare al Bashir (il dittatore militare cacciato un anno fa ndr) senza al Bashir», anticipandone la crisi. Ci sono diverse ragioni alla base del golpe e la prima è che entro pochi mesi i militari avrebbero dovuto cedere il potere completamente ai civili.
Ciò non è mai successo nella storia del Sudan indipendente, dove l’esercito è un attore importante del paese. Da una parte è stato l’artefice della modernizzazione dello stato fin dai tempi dell’indipendenza. Dall’altra è il detentore di una fetta maggioritaria di economia nazionale e rappresenta per ciò stesso un intero ceto sociale, in questo simile ad altri paesi come l’Egitto o l’Algeria.
Perdere il controllo
Perdere il controllo di questa parte dell’economia rappresenterebbe non tanto una sconfitta politica ma la crisi per tutta una classe sociale. Si tratta di una seconda ragione per non cedere. Un terzo motivo è che non c’è ancora stato alcun accordo coi civili sulle violazioni avvenute alla caduta del regime precedente e nelle fasi confuse che hanno portato alla transizione.
Molti militari – soprattutto le forze di intervento rapido del vicepresidente Hemetti – temono che un potere civile trascini molti alti ufficiali (forse anche gli attuali protagonisti) davanti ai tribunali per rispondere delle loro precedenti condotte.
In questo senso chiedono da tempo un negoziato su una legge di amnistia che – a loro dire – era stata promessa all’inizio del governo Hamdok. Infine c’è anche il fatto che nelle ultime settimane i militari hanno constatato le divisioni interne al governo civile cogliendo tale opportunità.
In effetti la crisi di Port Sudan da mesi blocca il più importante scalo marittimo del paese. Si tratta di un contenzioso etnico–politico, probabilmente istigato dall’esercito ma che ha una sua origine propria. Durante i colloqui di Juba (il Sud Sudan si era offerto di mediare) sulle persistenti crisi regionali (Khordofan, Darfur, Beja e così via), a detta di molti osservatori la questione dell’est era stata trattata troppo sbrigativamente.
Ciò ha dato ai leader locali l’opportunità di manifestare il loro malcontento e ricusare l’accordo firmato nell’ottobre 2020 nella capitale sud sudanese. Per i maggiori leader tribali dell’est, tra i quali anche alcuni ex collaboratori del regime precedente, è stato facile sollevare la popolazione locale contro il governo di Hamdok.
Le popolazioni dell’est
Le popolazioni orientali hanno così bloccato lo sbocco al mare, vera arteria del paese, chiesto l’annullamento degli accordi (o almeno della parte concernente la regione orientale), le dimissioni di Hamdok e la formazione di un nuovo governo. Così, dopo alcuni mesi di stallo, i militari hanno utilizzato tale pretesto per intervenire direttamente.
La manipolazione politica è evidente ma va detto che il governo civile è rimasto sordo alle rimostranze locali delle popolazioni dell’est, né è stato abbastanza veloce nel risolvere la crisi. In ogni caso l’esercito ha ottenuto un’ulteriore base di consenso. Ora si tratta di vedere se riuscirà a convincere gli Stati Uniti che non sta tornando al passato ma che cerca soltanto di rinegoziare alcuni termini della transizione.
Dalla sua al Burhan ha l’amicizia con l’Egitto e l’Arabia Saudita che possono parlare a Washington in suo favore. Con il Cairo (che addirittura qualcuno addita come ideatore del golpe) i rapporti sono divenuti più stretti dopo decenni di gelo durante il lungo regno di Bashir.
Da tempo il generale al Sisi spera di utilizzare il Sudan come piattaforma per contrastare l’Etiopia di Abyi Ahmed, accusata di voler modificare le acque del Nilo con la Grand ethiopian renaissance dam (Gerd). Si tratta di un’ossessione strategica per l’Egitto che vorrebbe far transitare attraverso Khartoum il suo aiuto militare alle forze tigrine delle Tigray defense forces (Tdf) in funzione anti etiopica.
Tuttavia in Sudan le posizioni erano e rimangono divise: se al Burhan sembra d’accordo con gli egiziani, il premier Hamdok era contrario come anche il vicepresidente Hemetti (che comanda i paramilitari delle Rapid support forces), quest’ultimo molto più vicino ad Addis Abeba e sostenuto dagli Emirati.
Tale diatriba è un altro elemento che dimostra quanto l’intreccio tra Corno d’Africa e Golfo stia diventando sempre più stretto. Si tratta di un dato geopolitico di primaria importanza.
Corno d’Africa e Golfo
Durante la guerra fredda le sponde del mar Rosso che divide le due regioni, non interagivano tra di esse se non in casi rarissimi, ad esempio per ciò che concerne l’ecologia ambientale del mare. L’unico tema davvero importante, e al centro dell’attenzione di tutti, era il libero accesso al Canale di Suez.
A quel tempo l’interesse dell’Arabia Saudita era rivolto piuttosto verso nord o a oriente, non fidandosi né del regime politico-militare egiziano e ancora meno di quello sudanese, troppo favorevole ai nemici mortali di Riad: i fondamentalisti islamici.
Con la fine dello scontro bipolare a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, gli sguardi di tutti i protagonisti della regione erano concentrati verso l’Iraq e l’Iran (tre guerre in vent’anni). La stessa crisi somala era stata alla fine archiviata come male endemico ma accettabile. Con lo scoppio della guerra in Yemen tutta l’area è diventata improvvisamente determinante e le relazioni tra le due regioni si sono intensificate.
L’incontro-scontro tra Corno d’Africa e Golfo di Aden si è fatto strategico: la competizione duale (militare-commerciale) lungo la costa orientale africana è divenuta una reale posta in gioco, aprendo la strada a nuovi attori con l’arrivo dei turchi e dei russi.
Questi ultimi avevano ottenuto una base per la loro marina militare dal regime sudanese di Bashir che il governo di Hamdok aveva successivamente congelato. Ora sperano che al Burhan riapra il dossier. Corno d’Africa e Golfo sono così divenuti due lati di un medesimo scenario geopolitico da cui si innerva una rete di relazioni internazionali verso sud e verso l’Asia, via oceano Indiano con tappa negli Emirati. Ma ci sono degli ostacoli.
Il conflitto yemenita rappresenta la ferita più grave della sponda orientale del mar Rosso, divenuta peggiore anche dell’annosa condizione della Somalia che le sta di fronte. Pur con tutti i suoi limiti, quest’ultima sta cercando di trovare una qualche stabilità almeno dal punto di vista della sicurezza.
Attorno a Marib, il capoluogo della regione centrale dello Yemen e fino all’anno scorso risparmiata dai combattimenti, si sta ora svolgendo una delle fasi più sanguinose di tutta questa lunga guerra civile che dura ormai da sei anni.
Dall’altro lato del mare, lo scontro violento tra Addis Abeba e Tigray sta assumendo l’aspetto atroce di una guerra civile che nessuno riesce ad attenuare.
Questi due conflitti dirimpettai caratterizzano l’attuale vicenda della relazione Corno–Golfo. Se anche la crisi sudanese si trasformasse in un urto violento a tutto campo, vi sarebbero conseguenze di grave instabilità per tutta la regione.
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