- Giovedì un’ora di incontro tra il presidente della Repubblica e la premier, dopo il Consiglio supremo di difesa. Si è parlato delle questioni internazionali e del conflitto
- Ma anche dello scontro con la magistratura. La comunicazione di palazzo è blindata. Ma Mattarella spera in toni più concilianti da parte del governo.
- Firmerà la riforma e la manderà all'esame del parlamento. Del resto il testo cambierà, come annuncia Nordio. Attenzione alle critiche che vengono dall’Europa: potrebbero impattare sul Pnrr
Gli uomini del presidente blindano i contenuti del colloquio fra Sergio Mattarella e Giorgia Meloni al Quirinale. Filtra pochissimo: è iniziato alle 18 e 50 allo studio alla Vetrata, è durato un’ora scarsa. Toni cordiali, ma è un’annotazione di rito. Si è svolto alla fine di un Consiglio Supremo di difesa che ha confermato la posizione italiana, già portata al vertice di Vilnius, della necessità «di una forte iniziativa per richiamare l’attenzione dell’Ue e della Nato sull’Africa». L’Italia è il principale paese d’approdo dei flussi migratori della rotta del Mediterraneo centrale, per lo più dalle coste libiche e tunisine, e nei primi mesi del 2023 c’è stato «un picco» di arrivi rispetto al quale il governo della destra ha scoperto, dopo gli anni della propaganda, di non poter fare nulla da solo.
Ma dell’incontro riservatissimo fra il presidente e la premier Meloni l’oggetto è difficile da ricostruire. In queste ore si attende la firma del Colle sul ddl giustizia. Arriverà presto, forse già in settimana. Eppure per valutare la delicatezza del confronto bastano già le premesse. E il contesto: gli scontri fra governo e opposizione, gli attacchi alla stampa, in corso da una settimana e proseguiti ancora giovedì al senato con l’ennesima richiesta delle dimissioni della ministra Santanchè.
Per esempio basta il fatto che l’invito era filtrato già il giorno prima, a differenza dei precedenti e della proverbiale discrezione del presidente della Repubblica. Nei giorni delle polemiche sui casi Santanché, Delmastro e La Russa, i corridoi del Colle sono rimasti silenziosi. Eppure lassù è innegabile la preoccupazione per i toni ruvidi fra governo e magistrati innescati, nella fase recente, con i comunicati anonimi di palazzo Chigi e di via Arenula del 5 luglio.
Altro indizio, la convocazione a sorpresa, mercoledì sera, dei vertici della Cassazione, poco dopo la conferenza stampa di Giorgia Meloni a Vilnius. Nella lingua dei segni quirinalizi, esprime la solidarietà con i magistrati sotto attacco: prima anonimo, appunto, con le note di palazzo, poi rivendicato, nella conferenza della premier e in un’intervista a Libero del ministro Nordio (in cui ha detto, fra l’altro: «La politica si è chinata davanti alle critiche della magistratura»).
Nessun dubbio che il presidente firmerà la riforma sulla giustizia. Del resto non si tratta di un decreto, e l’unico ddl che Mattarella non ha firmato è stato nel 2017: introduceva misure contro il finanziamento delle imprese delle mine a grappolo ma, per un errore materiale, si poneva «in contrasto con le convenzioni di Oslo e di Ottawa».
L’esempio è utile a ricordare che il presidente è per Costituzione il garante dei trattati internazionali. E il testo della riforma è già sotto osservazione della Commissione Europea, che nel suo ultimo Rapporto sullo stato di diritto ha segnalato che in Italia «è stata presentata una proposta di legge che mira ad abrogare il reato di abuso di ufficio pubblico e a limitare la portata del reato di traffico di influenze: queste modifiche depenalizzerebbero importanti forme di corruzione e potrebbero compromettere l’efficace individuazione e lotta alla corruzione».
La Commissione ci guarda, dunque. E Mattarella deve vigilare. Una mossa falsa potrebbe ulteriormente rallentare la già lenta e travagliata attuazione del Pnrr. Il testo sarà emendato. Il Guardasigilli stesso ha annunciato modifiche al funzionamento dell’avviso di garanzia, con riferimento al caso Santanchè, e dell’imputazione coatta, con riferimento a quello del sottosegretario Delmastro.
Quest’ultimo episodio, per il ministro, «dimostra l’irrazionalità del nostro sistema». Eppure, al contrario, la possibilità dell’imputazione coatta è precisamente l’espressione dell’indipendenza del giudice dal pm. Insomma dal governo arrivano segnali contraddittori.
Così come dalla conferenza della premier a Vilnius, in cui da una parte negava l’intenzione di guerra ai magistrati ma dall’altra annunciava che comunque avrebbe tirato dritto. Qual è la vera intenzione di Meloni: abbassare i toni, e farli abbassare ai suoi facinorosi, procedere confrontandosi e ascoltando le voci istituzionali; oppure andare avanti a strappi, con il rischio che, allora sì, il testo venga rinviato alle camere?
Sta qui il cuore del confronto fra il presidente e la presidente. Le opinioni del primo si conoscono dai suoi discorsi ufficiali. Il prossimo 28 luglio sarà a Palermo alla commemorazione del giudice Rocco Chinnici, ucciso dalla mafia. Possibile che in questa occasione possa dire qualche parola su cui il governo potrà, se vuole, meditare.
Difficilissimo invece che giovedì si sia parlato del caso La Russa: si tratta di un fatto personale della seconda carica dello Stato, in cui il presidente della Repubblica non ha alcun motivo di entrare. Il che ha però un risvolto: la responsabilità degli sviluppi di questa vicenda ricade per intero sulle spalle della premier.
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