Nella manovra c’è anche lo svuotamento del fondo perequativo infrastrutturale: restano solo 900 milioni rispetto agli iniziali 4,6 miliardi di euro. Critiche a Fitto: «Si occupa del Mezzogiorno nei ritagli di tempo»
Un altro colpo al sud da oltre 3 miliardi e mezzo di euro. Coperto per settimane dalla macchina della propaganda sul Ponte sullo Stretto, messa in piedi dal leader leghista Matteo Salvini. Ma che pure non è bastata a nascondere la realtà di un governo disinteressato al Mezzogiorno.
Sono i numeri a raccontare come Giorgia Meloni non abbia a cuore la questione meridionale: c’è un taglio netto alle risorse per Mezzogiorno, previste per la realizzazione o il miglioramento infrastrutture di vario tipo, dalla scuola alla sanità, passando per i trasporti e per la rete idrica. I 4,6 miliardi di euro stanziati fino al 2033 sono quasi tutti cancellati: restano in cassa meno di 900 milioni di euro, 891 milioni per l’esattezza.
Nel dettaglio sono “salvi” 100 milioni all’anno dal 2027 al 2033, che si sommano ai 191 milioni di euro già impiegati per il 2022 e il 2023. Spiccioli rispetto alle intenzioni iniziali.
La riduzione parte drasticamente dal 2024. La contrazione degli investimenti per il sud ammonta a 900 milioni di euro per il prossimo triennio. In questi 36 mesi è stato deciso il totale azzeramento del fondo perequativo infrastrutturale.
Tra le pieghe della manovra economica, che inizia a dispiegare i propri effetti, non mancano dunque delle sorprese. Spesso amare. E viene così smascherato lo storytelling meloniano.
Ministri in silenzio
Il dato è incontrovertibile. Il governo, che ha varato il decreto Sud nei mesi scorsi e ha promesso la realizzazione del collegamento tra Calabria e Sicilia, in realtà taglia delle risorse già a disposizione. Sarebbe stato sufficiente prenderle e metterle nel motore dell’economia meridionale, stabilendo le modalità di ripartizione.
Invece è stato innescato un cortocircuito tra ministeri, quelli particolarmente interessati. Almeno sulla carta. Visto che Salvini è concentrato principalmente sul Ponte, che propaganda via social, mentre gli altri ministri, come quello dell’Istruzione Giuseppe Valditara, non ha valutato la portata dell’investimento del fondo sulla scuola, alla pari del collega della Salute, Orazio Schillaci.
Ne esce male, su tutti, il ministro del Sud, Raffaele Fitto. Non ha battuto ciglio di fronte all’azzeramento del fondo, nonostante la sua estrazione pugliese. E proprio il presidente della regione Puglia, Michele Emiliano, rilancia un appello su Domani: «Nell’ottica di leale collaborazione istituzionale tra organi dello Stato, si chiede al governo di riprendere immediatamente il percorso già avviato».
Si tratta, osserva il governatore pugliese, di «finanziamenti che avrebbero potuto essere utilizzati per ridurre sensibilmente il loro gap infrastrutturale».
Un’occasione sprecata su cui le amministrazioni tentano il dialogo in extremis. La vicenda non riguarda solo i territori. I malumori si registrano anche in parlamento. Dalle opposizioni c’è una certa irritazione nei confronti dei silenzi di Fitto.
«C’è un ministro del Sud che si occupa del Mezzogiorno nei ritagli di tempo. Non ha mai difeso nemmeno la quota dell’80 per cento delle risorse del Pnrr», dice a Domani la deputata e presidente di Azione, Mara Carfagna, che da ministra del governo Draghi conosce bene il meccanismo dello strumento finanziario, ora cassato.
Il ritorno del fondo
La misura, del resto, ha avuto un iter alquanto travagliato. Non è nata sotto una buona stella. La sua istituzione risale addirittura al 2009, con l’ultimo governo Berlusconi, per volontà del ministro leghista Roberto Calderoli con lo scopo di dare attuazione al federalismo fiscale.
Così è stato previsto lo stanziamento di 4,6 miliardi di euro per intervenire su «strutture sanitarie, assistenziali e scolastiche», sulla «rete stradale, autostradale e ferroviaria» per finire alla «rete, elettrica, al trasporto e distribuzione del gas» e alle «strutture portuali e aeroportuali».
Insomma, un progetto di ampio respiro. Peccato fosse finito nel dimenticatoio: le risorse sono rimaste bloccate per oltre dieci anni. Il motivo? La mancanza del decreto attuativo, seguendo un copione consolidato della politica italiana.
Così, dopo essere sparito dai radar, con il governo Conte II il fondo perequativo infrastrutturale è riapparso dietro la spinta dell’allora ministro degli Affari regionali, Francesco Boccia. Ma è stato il governo Draghi a pianificare davvero l’impiego dello strumento.
Da ministra Carfagna curò la fase di ricognizione a palazzo Chigi per individuare dove e in che modo intervenire. A giugno, al termine di questa operazione, si attendeva il passaggio finale del riparto. La caduta del governo Draghi ha stoppato tutto e Meloni non ha dato seguito all’iniziativa. E l’ultima manovra fa capire il motivo.
«Il governo Meloni decide ancora una volta di prendersela con il Mezzogiorno, preferendo investire le risorse degli italiani sul ponte sullo stretto, invece di intervenire sui profondi divari esistenti tra nord e sud su sanità, trasporti e istruzione», dice a Domani Marco Sarracino, deputato e responsabile Sud del Pd.
«Diventa davvero incomprensibile», insiste il parlamentare, «questo accanimento della destra contro un territorio che invece meriterebbe opportunità e protezione». Non è la prima volta che il governo promette qualcosa per il sud e fa il contrario.
«C’è una presidente del Consiglio che nella conferenza stampa di fine anno non ha quasi mai parlato di Mezzogiorno» ricorda Carfagna, evidenziando che «quando lo ha fatto, ha detto una cosa non vera sui livelli essenziali delle prestazioni, perché con il governo Draghi ne abbiamo definiti e finanziati tre: per gli assistenti sociali, per gli asili nido e per il trasporto a scuola per le persone con disabilità».
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