- Il testamento di Berlusconi assegna la maggioranza di Fininvest ai figli maggiori, che hanno anche ruoli esecutivi nelle aziende di famiglia.
- Ai figli minori la quota di minoranza, mentre 100 milioni andranno a Paolo Berlusconi e a Marta Fascina.
- Lasciare le redini del management aziendale a familiari è tipico della tradizione capitalistica italiana: anche questo caso è un’occasione sprecata per cambiare una tendenza generalmente dannosa per i risultati delle imprese familiari.
Il 5 luglio è stato aperto davanti a due testimoni il testamento di Silvio Berlusconi, il cui contenuto è stato reso noto poco dopo anche ai figli. Il giorno dopo, i termini per la successione del Cavaliere sono stati resi noti al pubblico: il 53 per cento di Fininvest, la holding di famiglia che contiene, tra le altre cose, una quota in Mediolanum, la proprietà di Mondadori e la quota di maggioranza di Mediaset, andrà ai figli maggiori Marina e Pier Silvio, avuti dal primo matrimonio di Berlusconi.
La restante quota di minoranza, seppure molto rilevante, andrà a Barbara, Eleonora e Luigi, i figli avuti in seconde nozze con Veronica Lario. Il testamento prevede anche un lascito di 100 milioni al fratello di Berlusconi, Paolo, uno di pari importo per la compagna Marta Fascina e 30 milioni per Marcello dell’Utri, tra i fondatori di Forza Italia, per cui è stato in Parlamento dal 1996 al 2013, e collaboratore del Cavaliere fin dagli anni Settanta, poi condannato per concorso esterno in associazione mafiosa nel 2014.
Il destino
Del destino dell’impero di Berlusconi si è parlato molto anche prima della sua morte, quando le condizioni di salute sempre più gravi hanno spinto a interrogarsi sulla successione. Le ipotesi erano principalmente tre: una cessione di buona parte degli asset produttivi, una divisione equa tra i figli, che però aumentava i rischi di un controllo instabile della holding, o un “premio” ai figli maggiori, come è appunto avvenuto.
Il motivo è molto semplice: Marina e Pier Silvio Berlusconi occupano da molti anni ruoli chiave all’interno delle aziende di famiglia: la prima è Presidente di Fininvest e di Mondadori, mentre il secondo è Vicepresidente esecutivo e Amministratore delegato di Mediaset. I tre figli minori, invece, hanno ruoli marginali nel gruppo: Barbara e Luigi sono consiglieri di amministrazione di Fininvest, mentre Eleonora non svolge alcun ruolo all’interno dell’azienda.
La decisione di Berlusconi per la sua successione allontana di molto la possibilità che le sue aziende possano essere cedute nel breve-medio periodo. Un dato che si è registrato anche in borsa: dalla morte del fondatore, le azioni di Mediaset hanno continuato a crescere perché c’era chi, tra gli investitori, scommetteva in una cessione del gruppo; l’annuncio del contenuto del testamento ha però portato il prezzo a scendere, pur rimanendo a un livello ben più alto rispetto a un mese fa.
Nessuna rivoluzione
La successione dell’impero Berlusconi allontana ipotesi di grandi rivoluzioni all’interno delle sue aziende. Una eventuale cessione avrebbe infatti potuto incidere sull’identità del gruppo, per esempio cambiando l’orientamento politico o, semplicemente, il cosiddetto tone of voice delle reti Mediaset. Un cambiamento di questo tipo avrebbe naturalmente avuto un forte impatto anche sulla società italiana.
La televisione resta infatti il media più seguito dalla popolazione in generale e, seppur con l’aumento della concorrenza negli ultimi anni, Mediaset rimane uno dei due poli di riferimento del piccolo schermo in Italia. Il mantenimento di Marina a capo di Fininvest e di Pier Silvio alla guida di Mediaset lascerà probabilmente tutto invariato o quasi.
Qualche segnale di cambiamento però c’è, come l’arrivo di giornalisti e personaggi tv provenienti dalla concorrenza, da Bianca Berlinguer e Myrta Merlino a Luciana Littizzetto, o l’esclusione di alcuni volti storici dai palinsesti, come Barbara D’Urso.
Capitalismo all’italiana
La scelta di lasciare il controllo dell’impero stabilmente in mano alla famiglia ha fatto tirare un sospiro di sollievo a chi temeva un terremoto nel mercato dei media italiani, ma è anche sintomo di un difetto tutto italiano: la mancata separazione tra proprietà e management all’interno delle aziende, anche quando sono molto grandi.
È naturale pensare che i figli maggiori di Berlusconi rimarranno nei loro ruoli esecutivi, se non addirittura se ne assegneranno di altri.
Ma la storia d’impresa insegna che questa non è sempre la strada giusta da prendere: investire in un management al di fuori del parentado aiuta a selezionare le persone migliori per i ruoli esecutivi. È quello che per esempio aveva deciso di fare Leonardo Del Vecchio, che ha lasciato il proprio patrimonio aziendale in mano ai figli, ma senza assegnare loro la gestione.
Questa mossa evita sia che i discendenti si sentano in dovere di prendere le redini dell’azienda di famiglia, magari con scarsi risultati legati alla bassa motivazione, sia che non vengano selezionate persone più competenti solo per ragione di appartenenza.
Non è un caso che solo il 30 per cento circa delle imprese familiari sopravviva al passaggio dalla prima alla seconda generazione, con il dato che cala al 12 e al 3 per cento nei passaggi generazionali successivi.
Naturalmente nessuno si aspetta che Mediaset o Mondadori falliscano da un giorno all’altro solo a causa della successione di famiglia, ma forse le scarse prestazioni del colosso mediatico negli ultimi vent’anni si potrebbero spiegare anche con il fatto che la gestione dell’azienda è saldamente nelle mani della famiglia, senza aprirsi verso l’esterno. Un altro esempio di capitalismo italiano, un’altra occasione sprecata di rinnovamento nel modo in cui funziona la nostra economia.
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