Dalla Puglia alla Sicilia, destra e sinistra mostrano il loro lato peggiore. Pur di ottenere vittorie e potere sono pronti a imbarcare chiunque
Bari, Palermo, Torino, Catania. Sono le ultime quattro città protagoniste di scandali giudiziari che hanno travolto consiglieri comunali, regionali, sindaci, assessori, ma soprattutto hanno raccontato la permeabilità dei partiti a corruttele, trasformismi e interessi criminali, anche mafiosi.
Partiti che hanno ignorato gli allarmi sui destinatari delle inchieste, partiti che continuano a essere dei taxi, dove comodamente si siedono i voltagabbana di turno in cambio della dote più ambita: i voti. I movimenti politici hanno rimandato una riforma attesa da decenni, dimenticato la lezione del passato e aperto le porte a ogni genere d’ingresso pur di accaparrarsi consensi e fette di potere.
Gli scandali
Le carte giudiziarie sugli ultimi scandali raccontano un sistema di corruttela diffuso e, quando sfiorano i poteri criminali mafiosi, svelano un fenomeno sempre più in voga negli ultimi anni, con i politici che cercano i boss e non più il contrario.
Allo sprofondo non c’è mai fine, ma tutto è coperto da un’antimafia di facciata che si spella le mani in applausi di commiato e ricordo, mentre il capobastone di turno bussa alla porta del boss appena uscito di galera. A Palermo, dove governa il centrodestra in regione e in comune Totò Cuffaro vigila sul nuovo corso, nelle ultime due settimane è stato arrestato un esponente di Fratelli d’Italia, candidato non eletto in comune, mentre il vicepresidente della regione, leghista, è indagato ed è stato interdetto per un anno dai pubblici uffici. Le carte raccontano di pacchetti di preferenze, di carriere politiche note e di partiti che sgomitano per accaparrarsi i portatori di voti.
Iniziamo da Mimmo Russo, ex presidente della commissione urbanistica del comune di Palermo, passato con i suoi mille voti (in passato ne aveva ottenuti anche 4mila) in FdI nel 2019. Prima del grande salto era stato eletto in una lista a sostegno del sindaco Leoluca Orlando, prima ancora aveva transitato, nell’ordine, in Alleanza nazionale, in Azzurri per l’Italia, di nuovo in An, poi in Mpa. Un girovago. Ma mai nessuno lo ha messo alla porta o ha rifiutato il suo pacchetto di voti.
Eppure le sue relazioni e il suo modo di agire erano noti. Alle elezioni ha promesso posti di lavoro a mafiosi e amici dei mafiosi, brigato per trasformare un’area agricola in commerciale in modo da mettere le mani su altre assunzioni e consensi.
Il suo motto è riassunto in due intercettazioni: «Tu devi votare ...che...i figli......i figli di quelli che hanno in galera devono entrare (...) o hanno una certa ... con uno schema che… sono... “cristiani”... o io li butto». Il suo intento, scrivono gli inquirenti, era farsi appoggiare solo da chi inseguiva uno schema «mentale mafioso».
Da Palermo a Catania la musica non cambia. Il leghista Luca Sammartino, nipote del prefetto che indaga sulle infiltrazioni mafiose a Bari, è un portatore di voti e, grazie al suo stuolo di preferenze, è diventato numero due in regione, in quota Matteo Salvini. Un ruolo che ha lasciato a causa dell’ultima indagine che lo vede coinvolto per corruzione.
Prima eletto con l’Udc, 20mila voti ottenuti, poi il passaggio al Pd nel 2017 (area Renzi), 30mila preferenze e, infine il salto nella Lega di Salvini e una nuova elezione con 24mila consensi. Di Sammartino si ricordano solo i voti, politicamente poco altro. Il presidente della regione, Renato Schifani, gli ha affidato l’assessorato all’Agricoltura e lo ha voluto suo vice. Anche in questo caso, oltre al trasformismo, c’erano già due processi per corruzione elettorale nei quali il deputato regionale figura tra gli imputati.
In un caso è accusato di avere dato la disponibilità ad andare incontro ai desiderata dei familiari di un mafioso di un clan del catanese. «Non sono coinvolto in ipotesi di reati di mafia né di voto di scambio. Sono sereno e certo che emergerà la mia totale estraneità ai fatti», ha detto Sammartino annunciando le dimissioni dalla giunta Schifani.
Nell’indagine sono stati arrestati anche un sindaco e il suo oppositore, poi diventato suo alleato. Un esempio plastico del consociativismo degli affari. Dalla Sicilia al Piemonte passando per la Puglia, cambiano i movimenti politici, non muta il sistema.
I partiti hanno ignorato trasformismi e fatti noti, non hanno voluto approfondire il merito delle vicende. Paolo Borsellino chiedeva ai partiti di fare pulizia oltre le inchieste giudiziarie, ma la lezione del giudice ammazzato dalla mafia è rimasta ignorata.
Gli occhi di Berlinguer
In Puglia le indagini hanno riguardato una consigliera comunale e suo marito, accusati di voto di scambio politico-mafioso, un’assessora regionale e il suo consorte, indagati per voti comprati a 50 euro, e, infine, un fedelissimo del presidente della regione Michele Emiliano.
Tre inchieste incentrate sul mercato del voto, tre scandali che hanno investito il sistema di potere del Pd, e, in alcuni casi, mostrato l’accondiscenza nei confronti dei clan locali pur di raccattare consensi.
La consigliera comunale Carmen Lorusso era una transfuga, il marito idem con tanto di pregressi per gestioni opache di aziende comunali, l’assessora Maurodinoia aveva transitato da destra e sinistra ed era stata ripetutamente citata in vicende legate a pacchetti di voti e miracolose performance elettorali, il compagno era già stato coinvolto in un’inchiesta per compravendita di voti.
Il Pd ha mosso un dito? No, tutti inamovibili. Oltre agli occhi, immortalati nella nuova tessera del partito, si dovrebbe rileggere la famosa intervista rilasciata da Enrico Berlinguer, segretario del Partito comunista, a Eugenio Scalfari. Parlava a quel tempo e al futuro: «I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela; scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società, della gente; idee, ideali, programmi pochi o vaghi; sentimenti e passione civile, zero (...) sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un “boss” e dei “sotto-boss”».
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