- Sulla diversità etica dei suoi dirigenti il Pci ha costruito un bel pezzo della sua identità negli anni. Meglio rossi che ladri, trasmetteva il Pci, meglio ladri che morti, replicavano i partiti di governo. Per cinquant’anni era stato l’unico bipolarismo possibile.
- È la regola non scritta dell’ultima stagione del berlinguerismo. Dal compromesso storico all’alternativa: più crescevano le difficoltà politiche del Pci, più ci si rifugiava nella diversità morale.
- Oggi siamo nella situazione opposta. La privatizzazione della politica è il vero nome della nuova questione morale. Con i partiti prigionieri del capo.
Il 25 febbraio di trent’anni fa, era il 1993, per la prima volta si diffuse a Montecitorio una voce clamorosa: un avviso di garanzia per il segretario del Pds, Achille Occhetto.
Sarebbe stata la prima volta di un leader dell’ex Pci indagato per reati legati a Tangentopoli, come la violazione della legge sul finanziamento pubblico.
Quella stessa sera da Botteghe Oscure furono costretti a smentire l’esistenza di conti esteri del partito: «Invenzione di calunniatori male intenzionati».
Una linea dettata dal numero due Massimo D’Alema: «A noi non risulta un conto in Svizzera intestato al Pci, né che noi abbiamo chiesto o fatto chiedere tangenti ad alcuni né che le abbiamo incassate. È una vicenda oscura, di questa cosa si parla da molti giorni nei corridoi di Montecitorio. Qualcuno ha messo in giro la voce prima che sorgesse in sede giudiziaria».
Commentò velenoso il giornalista Vittorio Orefice nella sua Velina che veniva ogni sera distribuita a un selezionato gruppo di agenzie e giornali: «D’Alema ha certamente ragione, ma è capitato a tutti e in particolare a Bettino Craxi. Il diabolico tam tam comincia nel Transatlantico sempre con qualche giorno d’anticipo. Si fa un nome sottovoce e poi dopo qualche giorno... la gola profonda arriva ovunque».
E infatti, puntualmente qualche giorno dopo spuntò il nome: lunedì primo marzo entrò a San Vittore il titolare del conto Gabbietta, il signor G., ovvero Primo Greganti, ex amministratore della federazione di Torino del Pci, poi nell’amministrazione centrale del partito e imprenditore.
Barba e sguardo fiero, non era il primo esponente venuto dal Pci a finire in manette o sotto inchiesta: a Milano l’avviso di garanzia era arrivato anche a uno dei capi della corrente migliorista guidata da Giorgio Napolitano, Gianni Cervetti.
Ma l’arresto di Greganti faceva comunque paura, e con ottime ragioni. Per motivi contingenti, legati all’inchiesta Mani Pulite. E perché nel nome di G. si racchiudeva tutta la doppiezza dell’ex partito comunista sulla questione morale.
Ho raccontato questa storia in un libro di dieci anni fa, Eutanasia di un potere (Laterza, 2012). Mi sembra che la lezione di trent’anni fa, il terribile 1992-93 delle inchieste Tangentopoli e della fine della Repubblica dei partiti, aiuti a capire oggi i nodi irrisolti che il Qatargate, da ultimo, spalanca impietosamente: fondi neri compresi.
L’egemonia degli onesti
Sulla diversità etica dei suoi dirigenti il Pci ha costruito un bel pezzo della sua identità negli anni. C’è un episodio, raccontato da Pino Corrias nella sua biografia di Luciano Bianciardi (Vita agra di un anarchico, Baldini e Castoldi), che descrive quanto fosse prezioso il monopolio della moralità in politica esercitato dal Pci.
Nel 1956 si vota in provincia di Grosseto, proprio pochi giorni dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria, i carri armati per le vie di Budapest, appoggiati in Italia dal Pci di Palmiro Togliatti.
A Sasso l’Ombrone parla l’oratore democristiano, il professor Ciattini, evoca con fervore il pericolo comunista e la soppressione delle libertà a Budapest.
«Vedeva carri armati dappertutto, nelle strade, dietro gli angoli. Aveva ragione, poveretto. Se facevo così con l'orecchio, sentivo sparare anch’io», ricorda il comunista Enzo Giorgetti.
Quando tocca a lui non sa che fare, come contrastare gli argomenti dell'avversario. «Io pensai: di che cazzo parlo io? Ero veramente scoraggiato. Ma in tasca avevo l’elenco dei funzionari dell’Ente inquisiti dalla magistratura. Stavo ancora all’Unità e queste cose le sapevamo fare. Lessi l’elenco, la piazza si scordò dei carri armati, applaudì e noi aumentammo pure i voti. Quando scesi dal palco il professor Ciattini mi disse: “I ladri dell’Ente hanno battuto i carri armati”».
Queste cose le sapevamo fare: molti anni dopo sulle pagine dell’Unità le liste degli inquisiti saranno compilate da Marco Travaglio, raccogliendo l’indignazione di alcuni dirigenti post comunisti, evidentemente colti da ammesia. Perché il giustizialismo, come il Pci, ha radici antiche e arriva da lontano.
Una data simbolica è il 7 aprile 1953, un mese prima delle elezioni con la nuova legge elettorale, la legge truffa.
Quel giorno, per la prima volta (ovviamente sull’Unità), a proposito della Dc di Alcide De Gasperi appare il termine “forchettoni”.
Il Pci di Palmiro Togliatti si presenta in alternativa al «partito della greppia». Con un supplemento satirico, Il forchettone del lunedì”, l’antenato di “Tango e di Cuore, vignette corrosive, poesie sfottenti: «Osteria democristiana/c’è l'Italia alla democristiana/se rivincono le elezioni/se la pappano i forchettoni...».
I manifesti per la campagna alle elezioni amministrative 1975 con lo slogan “Il Pci ha le mani pulite” sono ancora lontani. E ancor più lo è l’intervista di Enrico Berlinguer a Eugenio Scalfari su Repubblica, 28 luglio 1981: «La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell’amministrazione, bisogna scovarli, denunciarli e metterli in galera. La questione morale, nell’Italia d'oggi, fa tutt’uno con l’occupazione dello stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, con la guerra per bande, con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati».
Meglio rossi che ladri, trasmetteva il Pci, meglio ladri che morti, replicavano i partiti di governo, la Dc, il Psi e alleati, meglio una tangente che i gulag di Stalin, meglio una democrazia corrotta che un regime totalitario, turatevi il naso e via.
Per cinquant’anni era stato l’unico bipolarismo possibile. Nell’Italia democratica per il Pci era impossibile giocarsi la sua diversità in chiave ideologica e politica, l’unica strada percorribile era farlo in chiave etica, antropologica: siamo comunisti ma non rubiamo.
Era l’altro volto dell’egemonia culturale. Un’egemonia etica. E anche un altro modo di interpretare la doppiezza: i ladri erano sempre gli altri. Una sintesi brutale, ma così potente da trascinare anche gli altri partiti per cui l’onestà viene ostentata come un valore discriminante.
L’onesto Zaccagnini nella Dc, il partito degli Onesti del repubblicano Ugo La Malfa. E la proposta di un governo degli Onesti, agitata da Berlinguer dopo il terremoto dell'Irpina nel 1980, un’alternativa alla Dc con molte perplessità anche al vertice del Pci, come ha rivelato Emanuele Macaluso.
Ma è la regola non scritta dell’ultima stagione del berlinguerismo. Dal compromesso storico all’alternativa: più crescevano le difficoltà politiche del Pci, più ci si rifugiava nella diversità morale.
Una specie di fuga dalla politica con cui il Pci si ritrovava diviso tra chi si allineava sul fronte della conservazione, una politica senza cambiamento, e chi predicava il cambiamento senza politica, ritrovandosi anche senza saperlo allineato con l’antipolitica che anticipava l’insorgere della destra nel tornante storico più impegnativo: la caduta del muro di Berlino e la fine della Prima Repubblica.
Una identità incerta
Nel 1992-1993 la diversità risultava annacquata, come tutto il resto. Comunisti non potevano più dirsi, dopo la caduta del muro di Berlino, gli eredi del Pci. E onesti neppure più tanto.
Erano diventati, secondo lo slogan di Nanni Moretti in Palombella Rossa, diversi ma uguali. «Anche a proposito della questione morale il Pds aveva una identità non definita, incerta, meno limpida di quella del Pci di Berlinguer», scriveva Iginio Ariemma (La casa brucia, Marsilio), in quegli anni portavoce di Occhetto.
«Il Pds era l'incudine e il martello, tra la pressione del vecchio sistema partitico e politico affaristico e la volontà di cambiamento che aveva tra i suoi obiettivi le riforme istituzionali e elettorali, ma conteneva anche estremismi antipolitici e antipartitici».
La riforma della politica assumeva il volto dell’antipolitica. Una contraddizione che ai vertici del Pds si era trasformata in una lotta di potere sotterranea, feroce e sconosciuta tra Occhetto e il suo numero due D’Alema.
Tangentopoli e guerra interna si erano incrociati per la prima volta alla festa dell’Unità di Reggio Emilia nel settembre 1992, quando il condirettore dell’Espresso Giampaolo Pansa aveva attaccato le responsabilità del segretario Occhetto: o sapeva delle tangenti, e allora è complice, o non sapeva, e allora è un ingenuo, nell’uno e nell’altro caso non poteva guidare il primo partito dell’opposizione.
La platea della festa, a sorpresa, aveva gradito quelle parole, accolte da applausi, anzi, da «un uragano di applausi», ricordò Pansa, imbarazzante per i vertici della Quercia.
Occhetto l’aveva presa malissimo e minacciato le dimissioni, ma a difenderlo ci aveva pensato, il giorno dopo, il capogruppo alla Camera D’Alema: «Un attacco immotivato, pretestuoso, sciocco. Non è tollerabile, cari compagni, che qualcuno venga qui da dire che Occhetto si deve dimettere. Se lo fa dovete fischiarlo, perché insulta voi e non solo il segretario».
Un appoggio e una dimostrazione di forza: caro Achille, tocca a me proteggerti dai giornali e dai giudici che tu hai cavalcato.
Il 14 febbraio 1993, due settimane prima dell’arresto di Greganti, D’Alema attaccò per la prima volta il pm di Mani Pulite Antonio Di Pietro: «Trovo penoso questo mondo politico che va in ginocchio da lui. Non può diventare un punto di riferimento politico per il paese».
La rottura di un fronte, perché fino a quel momento le opposizioni erano state unite nell’appoggio al pool Mani Pulite. Su Tangentopoli, aggiungeva il numero due della Quercia con una precisazione che farà storia, «bisogna distinguere tra l’arricchimento personale e quello che può servire alla vita di un partito».
Dopo la cattura di Greganti era stato ancora lui a guidare la linea della resistenza ai giudici. «Se arrivasse un avviso di garanzia a un dirigente del Pds sarebbe un colpo di stato».
Perché mai? Il giovane leader (in quel momento D’Alema aveva 44 anni) non lo spiegava. Ma due giorni dopo, alla trasmissione di Gad Lerner Milano Italia, si lasciò andare a una previsione: «Fra tre giorni di Greganti non si parlerà più». Tre giorni dopo, durante un interrogatorio, il compagno G si assunse tutte le responsabilità: «Il conto Gabbietta è mio», confessò.
Tensione, nausea, nebbia
Si parlerà per anni di un occhio di riguardo delle procure verso i post comunisti durante Tangentopoli e di toghe rosse controllate dall’alto, da Magistratura democratica e da Luciano Violante, ma a spulciare i numeri il coinvolgimento della Quercia in Mani Pulite è pesante: ventidue procure in tutta Italia indagano sul partito, 113 dirigenti indagati di cui sette parlamentari, 39 arresti.
L’arresto del signor G, quello di Renato Pollini, ex amministratore del Pci, e di Marco Fredda, responsabile del patrimonio, l’interrogatorio del tesoriere Marcello Stefanini che morì poco dopo stroncato da un ictus.
Identica, tragica sorte toccò a Davide Visani, il capo della segreteria incaricato di studiare passo passo il corso delle indagini che riguardano il partito.
E lo stesso Occhetto, nel luglio 1993, ebbe un cedimento allo stress, gli venne «un coccolone» e si ritrovò convalescente quando Gardini si sparava: il suo biglietto d’addio, scrisse il segretario del Pds turbato in un articolo per l’Unità, è «un colpo di tamburo che sovrasta il colpo di pistola alla tempia».
Sono i mesi in cui L’Espresso sparava in copertina il ritratto grottesco del leader del Pds di Sebastian Kruger con il titolo “Occhettopoli”.
E al secondo piano di Botteghe Oscure prevaleva l’angoscia, sentimento che accomunava i capi della Quercia ai vicini di casa di piazza del Gesù e ai compagni di via del Corso.
Con un gabinetto di crisi chiamato a gestire l’emergenza Tangentopoli, in cui si studiavano le carte, si pianificavano le controreazioni, in un clima di confusione e di incertezza.
Spuntarono conti svizzeri segreti, e «ci trovammo completamente al buio», ha ammesso Claudio Petruccioli nel suo libro di memorie (Rendiconto, Il Saggiatore), all'epoca tra gli uomini più vicini ad Occhetto, «non eravamo in grado di escludere nulla. Per fortuna, le cose si chiarirono a nostro vantaggio, ma per loro conto, senza che noi potessimo farci niente».
Nell’autunno del 1993 ripartirono le voci su un possibile interrogatorio di Occhetto da parte del pool milanese o di nuovi arresti alla vigilia della festa dell’Unità e ai vertici del Pds tornò l’allarme rosso.
«Il timore ci indusse a progettare, con la massima cautela, un passo presso la procura di Milano», ha scritto Petruccioli. «Violante conosceva bene, tra i tanti, anche i magistrati del pool milanese. Gli chiedemmo se riteneva possibile informarsi. Violante si prese un paio di giorni, poi riferì: missione compiuta. Al momento non era previsto nulla».
Invece, il giorno del comizio conclusivo alla festa dell’Unità, alle tre del pomeriggio Ariemma informò Petruccioli che stava per essere arrestato Marco Fredda, fratello della segretaria di Occhetto.
«Abbiamo saputo che il mandato di arresto reca in calce le firme di tutti i componenti del pool di Mani Pulite. O è stato preso in giro Violante, o Violante ha preso in giro noi».
Arrivarono poi le inchieste veneziane del giudice Carlo Nordio sui legami tra il partito e le cooperative rosse e soprattutto il caso Enimont, con gli incontri tra Occhetto e Gardini, uniti dalla comune passione per la vela e con la famosa valigetta da un miliardo di lire che, secondo la testimonianza di Carlo Sama, Sergio Cusani avrebbe depositato nel palazzo di Botteghe Oscure.
Le indagini si arenarono qui, perché «la responsabilità penale è individuale. Non potevo portare in giudizio una persona che si chiama Partito di nome e Comunista di cognome», spiegherà poi Di Pietro.
Ma era proprio questo il punto: l’intreccio tra un destino collettivo sempre più sbiadito e le ambizioni e gli odi individuali che crescevano senza più trovare ostacoli.
Il Pci era un corpo collettivo, di cui ogni singolo dirigente, fosse addirittura il segretario, era solo un’espressione. Eventuali reati venivano scaricati sul singolo per preservare la purezza dell’apparato.
Se un dirigente veniva scoperto a rubare doveva assumersi ogni responsabilità e immolarsi per il bene del partito. Come se esistesse ancora, nel 1992-93, una moralità rivoluzionaria che andava oltre la moralità dei singoli, chiamati a sacrificarsi sull’altare della ragion collettiva.
«Tangentopoli ci arrivò addosso ancora convalescenti», ha scritto ancora Petruccioli. «In tante riunioni fatte per capire cosa ci fosse stato davvero e cosa potevamo attenderci dall’iniziativa dei magistrati, ci siamo trovati di fronte a un impasto di rassicurazioni e di timori, condito dall’invito a stare attenti, a non “schiacciarci troppo” – come si diceva – sui giudici. Più volte ho avvertito qualcosa di inafferrabile. Mai nulla di preciso, nulla che ci facesse intravedere una direzione lungo la quale approfondire e prendere misure, una sgradevole sensazione di preoccupazione, di reticenza. Una tensione, una nausea vaga e continua ci attanagliò per mesi, come quando si viaggia dentro una nebbia che sembra non finire mai».
Tensione, nausea, nebbia: il partito che più di ogni altro aveva il compito di indicare una via d’uscita democratica alla rivoluzione di Tangentopoli si perse.
E nella Seconda Repubblica gli eredi del Pci, il partito diverso della Prima Repubblica, si proposero come il partito uguale, anzi, il più uguale di tutti. Si rassegnarono a far parte del mondo che moriva, più che a provare a guidare il nuovo che stentava a nascere, con le sue convulsioni, le contraddizioni, i passaggi simbolici.
Serve più politica
La rappresentazione del partito come corpo unitario si è infranta allora, nel 1992-93, trent’anni fa, e ha lasciato il posto a ben altro. È la storia di questi anni.
«I partiti di oggi sono macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. Non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l’iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille... macchine di potere che si muovono soltanto quando è in gioco il potere: seggi in comune, seggi in Parlamento, governo centrale e governi locali, ministeri, sotto-segretariati, assessorati, banche, enti. Se no, non si muovono».
Ogni dirigente del Pd conosce a memoria le parole consegnate da Berlinguer a Scalfari nel 1981. De te fabula narratur: è un ritratto spietato del Pd di oggi, 2022.
Dirigenti spregiudicati. Correnti che hanno bisogno di soldi per operare. Leadership parallele, con capicorrente che organizzano truppe, sedi, canali di finanziamento, uffici di comunicazione. Le fondazioni con i bilanci nascosti.
Ma c’è una differenza fondamentale: per Berlinguer la questione morale era originata dall’iper presenza della politica, dall’occupazione del potere, la politica che invadeva ogni sfera, anche la più privata.
Oggi siamo nella situazione opposta. La privatizzazione della politica è il vero nome della nuova questione morale. Con i partiti prigionieri del capo, cosa ben diversa dai partiti personali di cui ha scritto Mauro Calise.
Sono partiti che si prefiggono un unico obiettivo, fornire al leader le risorse per fare politica e far usufruire al cerchio magico del leader gli eventuali utili arrivati dal suo successo. E poi l’esternalizzazione della politica, la trasformazione della politica in lobby e dei leader in lobbisti.
Una trasformazione della specie che ha colpito più di tutti i seguaci dell’antica diversità, che coltivavano il partito come missione e ragione unica di vita, perché senza un luogo collettivo non c’è nessun motivo per evitare la tentazione – lo dico così, con un linguaggio volutamente religioso – di arricchirsi senza badare alle compatibilità etiche o almeno legali.
Si aggirano come chierici che hanno perso la chiesa e la fede, secolarizzati, in una solitudine che li preserva dal controllo della comunità, che spesso è un principio di prudenza e vale molto di più dell’iscrizione agli albi della trasparenza, e dalla responsabilità nei confronti degli altri delle conseguenze delle loro azioni.
Il mestiere del politico è finito. Comincia quello dell’affarista: la politica come professione di Weber si capovolge nella politica come occasione per entrare in un sistema di relazioni dai confini mobili, dove tutto vale tutto.
Così, finiti i partiti, finita la fede politica, chiamiamola così, finito anche il finanziamento pubblico, l’antico funzionario, e perfino il dirigente senza incarico pagato da un’amministrazione pubblica, non ha più un partito che bada alle spese del suo sostentamento: viaggi, residenze, vitto e alloggio, quel tanto o poco di status che permette di fare fronte alle spese di rappresentanza.
Per fronteggiare queste esigenze è rimasto il solo canale istituzionale, che spiega più di tanti congressi costituenti l’appiattimento del Pd sul governo. Essere in un ente pubblico, una presidenza di commissione o di giunta parlamentare, l’ufficio di questore al Senato o alla Camera, il gabinetto di un sindaco, è prima di tutti una necessità di agibilità economica, per il leader o il notabile e i suoi staff, più che un ragionamento politico.
E poi c’è la figura del leader che si mette in proprio, ieri Massimo D’Alema ha raccontato bene la sua parabola al Corriere della Sera.
L’ex leader utilizza i suoi legami e le sue conoscenze per mettersi al servizio di interessi privati. Che siano leciti e illeciti, legali o illegali, trasparenti o no: ovviamente non è la stessa cosa rispettare le regole o calpestarle, ma la degenerazione è nel meccanismo che trascina la politica a diventare una questione privata, e dunque, anche, un’occasione di arricchimento privato.
In un contesto in cui, come ha scritto Lucia Annunziata (La Stampa, 17 dicembre), il collante ideologico della Terza via intesa come resa alla finanza, ha fornito la giustificazione ideale.
Un riformismo interpretato come pragmatismo, indifferenza a qualsiasi principio, disincanto, appiattimento sulla realtà, gestione dell’esistente, cinismo: nessun altro mondo è possibile, c’è solo questo, e allora ogni interesse vale l’altro.
Ogni interesse forte, s’intende: perché poi fasce enormi di popolazione sono rimaste senza rappresentanza. Gli interessi dei deboli e dei periferici: a quelli si è candidata a rappresentarli la destra populista, che non sui comportamenti privati dei suoi rappresentanti non non sente di dover rispondere di niente a nessuno.
La settimana scorsa un ex sottosegretario all’Interno, Antonio D’Alì, per anni esponente di spicco di Forza Italia, è stato condannato a sei anni di reclusione dalla Cassazione per concorso in associazione mafiosa, ma la notizia è finita in un trafiletto di stampa.
La destra si avvantaggia in modo enorme dal disvelarsi della doppiezza etica della sinistra e dalla possibilità di denunciare, semplicemente, che chi testimonia di voler pensare agli altri, che sia in un partito, in una cooperativa, in una ong, in realtà pensa solo a sé stesso.
E nessuno denuncia, invece, la doppiezza etica della destra che è forcaiola con i nemici, garantista con gli amici.
Così la questione morale è tornata a essere una questione politica, la più rilevante, ma nel senso opposto rispetto al passato.
Trent’anni fa Tangentopoli scoppiò dopo l’occupazione della politica di ogni angolo di società, come aveva denunciato Berlinguer. Ma oggi quella lezione va dimenticata, porta sulla strada sbagliata.
Oggi la corruzione è l’effetto dell'assenza della politica, del nulla, del vuoto, che spalanca i luoghi della politica all’invasione di lobby, poteri occulti, il peso del denaro nella formazione delle classi dirigenti.
E per tornare alla moralità della politica non serve un passo indietro, serve più politica. E più politici che abbiano nel loro percorso di formazione personale l’attitudine alla libertà dalle cose e dal potere, anche spirituale, che non può essere delegata soltanto alle appartenenze collettive.
Perché non è vero, infine, che senza comunità non ci sia motivo per evitare la tentazione della corruzione. Il motivo c’è, e si chiama rispetto, dignità, coscienza individuale, che rifiuta gli assoluti del bene e del male e contempla fragilità, cadute, risalite, tutto quanto fa parte dell’essere uomini e donne nella storia.
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