Il 58,8 per cento della pubblica amministrazione è formato da donne, pari a 3,2 milioni di dipendenti pubblici. Solo il 33,8 per cento però riveste un ruolo apicale. E nei dicasteri, tra i dirigenti e i capi dipartimento, sono una sparuta minoranza
«Un giorno ebbi una rivelazione: questo mondo era maschile». Era il 1949 e la filosofa francese Simone de Beauvoir denunciava nel suo saggio Il secondo sesso il ruolo subalterno a cui era relegata la donna. In settantacinque anni qualcosa è cambiato, ma in Italia il potere decisionale è ancora principalmente nelle mani degli uomini.
Nei giorni scorsi sono stati nominati i nuovi capi dipartimento del ministero della Salute: Giuseppe Celotto, Giovanni Leonardi e Francesco Saverio Mennini. Tre uomini, nessuna donna.
«Non si nota nemmeno più che le cariche dirigenziali sono assunte solo da uomini», dice Tiziana Cignarelli, segretaria generale della Federazione dei professionisti pubblici (Flepar) che per prima ha denunciato la situazione. «Viviamo in una società che propone modelli maschili di comando e dove le posizioni nevralgiche sono ancora prevalentemente ricoperte da uomini».
La situazione si inserisce in una tendenza più generale: le donne lavorano in comune, nei ministeri, in provincia, ma non ai vertici. Il 58,8 per cento della pubblica amministrazione è formato da donne, pari a 3,2 milioni di dipendenti pubblici. Solo il 33,8 per cento però riveste un ruolo apicale. La situazione che emerge dall’analisi della società Fpa dell’anno scorso riflette una tendenza valida in tutti gli ambiti: gli uomini fanno carriera più facilmente rispetto alle donne.
Ci sono alcuni settori in cui la presenza femminile è maggiore. Primo tra tutti quello dell’istruzione e della ricerca, in cui sono impiegate più della metà di tutte le donne che lavorano nella pubblica amministrazione.
Anche in questo caso però lo scenario non cambia: nelle posizioni di vertice delle università il 18,4 per cento è donna, percentuale che sale al 18,7 per cento negli enti pubblici di ricerca. Non raggiungono il 20 per cento nemmeno guardando i ruoli apicali delle ambasciate (14,4 per cento), degli enti pubblici economici (18,5 per cento) e degli organi costituzionali o a rilevanza costituzionale (18,9 per cento).
La tendenza però è in crescita. Il personale dirigente femminile nella pubblica amministrazione dal 2010 al 2020 è passato dal 20 al 29 per cento. Ma, sempre secondo l’analisi di Fpa, è un cambiamento troppo lento. Se il dato continuasse ad aumentare a questa velocità la parità di genere si raggiungerebbe solo nel 2040.
I ministeri
La situazione del ministero della Salute non è un’eccezione. In Italia ci sono quindici ministeri con portafoglio, otto hanno dei dipartimenti, mentre gli altri sette sono organizzati in direzioni generali. In entrambi i casi la guida rimane prevalentemente maschile.
Il ministero della Giustizia è articolato in cinque dipartimenti, tutti coordinati da uomini. Quattro su cinque sono i direttori del dicastero dell’Economia e finanze, a cui si aggiunge un ragioniere dello stato, sempre uomo.
La situazione non è migliore nel ministero delle Infrastrutture e dei trasporti in cui, su quattro dipartimenti, solo uno è guidato da una donna. Né in quello dell’Agricoltura, sovranità alimentare e foreste, che vede Giuseppe Blasi, Marco Lupo e Felice Assenza a capo dei tre dipartimenti.
Più equa invece la divisione dei ministeri dell’Interno (con due donne su cinque) e di Istruzione e merito, con la riconferma – avvenuta mercoledì scorso – di Carmela Palumbo e Jacopo Greco. Ambiente e sicurezza energetica rappresentano un’eccezione: Loredana Gulino e Laura D’Aprile occupano due delle tre posizioni di vertice.
Una situazione simile si verifica nei ministeri organizzati in direzioni generali. Agli Affari esteri e cooperazione internazionale il coordinamento del segretariato è assunto da Riccardo Guariglia e, su nove direzioni, sette sono a comando maschile.
Al ministero della Cultura il segretario generale è un uomo, a cui se ne aggiungono altri otto su un totale di undici posizioni apicali (di cui una in assegnazione). La segreteria del Lavoro e delle politiche sociali fa capo a Concetta Ferrari e, su dieci direzioni, le donne sono meno della metà.
Al ministero dell’Università e della ricerca il ruolo di segretaria è ricoperto da una donna, mentre tra i dipartimenti compare solo Marcella Gargano, nonostante ne siano previsti cinque.
Anche al ministero delle Imprese e del made in Italy, riorganizzato in quattro dipartimenti e nove direzioni generali il 19 febbraio, i nomi maschili sono ancora una volta la maggioranza: tre su quattro per i dipartimenti, sette su nove per le direzioni. Al Turismo la segretaria generale è Barbara Casagrande, mentre le direzioni sono a guida completamente maschile (il nome di chi guida il dipartimento di valorizzazione e promozione turistica non è specificato).
Per la Difesa deve essere fatto un discorso a parte perché la sua organizzazione ha una disciplina diversa dagli altri ministeri, prevista dal codice dell’ordinamento militare.
In Italia il servizio militare femminile è stato avviato solo nel 2000, la scarsa presenza di donne nel ministero – composto, tra gli altri, da due uomini nei ruoli di capo di stato maggiore e segretario generale – è giustificata da un’introduzione molto recente della possibilità di fare carriera.
Infine, guardando i capi dipartimento delle sezioni che coordinano specifiche aree politico-istituzionali, di cui fanno parte anche gli staff legati ai ministri senza portafoglio, su diciassette ruoli, quattro sono coordinati da una donna.
Necessità di cambiamento
«Bisognerebbe adottare un meccanismo simile alle quote per innescare fin da subito nei ruoli decisionali un cambiamento. Negli anni la società è rimasta la stessa, con una scarsa presenza nelle posizioni apicali di donne e di persone giovani», continua Cignarelli.
Secondo la Flepar non è però un discorso di poltrone, ma di equa possibilità di accesso a determinate posizioni lavorative. «Il cambiamento potrebbe arrivare dal panorama politico con una proposta di legge che imponga un’innovazione. Parliamo di discriminazioni, femminicidi, molestie, dovremmo partire dalle basi, proponendo un nuovo modello di società. Non parlo solo dei ministeri, ma anche dei dipartimenti, dei board, dei consigli di amministrazione».
Le difficoltà
Il lavoro domestico e quello di cura non retribuito in Italia gravano ancora principalmente sulle donne. A questo si aggiungono scarsi interventi di tutela che favoriscano la possibilità di conciliare i tempi di vita e lavoro, come un efficiente servizio di asili nido e il congedo di paternità obbligatorio e totalmente retribuito.
Questi sono due degli ostacoli che le donne incontrano nella loro carriera e che in molte situazioni rendono difficile rivestire ruoli decisionali. «Il problema è che spesso non possono nemmeno aspirare ad alcune posizioni apicali a causa delle dinamiche sociali che si sono instaurate e poi consolidate negli anni. Per troppo tempo abbiamo provato a fare cambiamenti dal basso, ma non bastano una donna qui e una lì. I piccoli passi che si sono sempre tentati hanno comportato tempi lunghissimi, sforzi enormi e scarsissimi risultati. Per una volta il cambiamento dovrebbe arrivare dall’alto».
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