Antonio Tajani mangia una, poi due pizzette alla buvette della Camera. Intorno si addensa la calca di fedelissimi di Forza Italia, in testa il big del partito nel Lazio, il deputato Francesco Battistoni. Il mondo brucia, da Teheran promettono vendetta per l’uccisione, da parte di Israele, del leader politico di Hamas, Ismail Haniyeh. Il contesto generale è più che mai caotico ma il ministro degli Esteri italiano pasteggia. Quindi ordina e sorseggia un caffè. Quantomeno trasmette tranquillità.

L’istantanea di Montecitorio risale e mercoledì scorso, al termine del rituale question time (quando i deputati illustrano le interrogazioni rivolte ai ministri con tempi contingentati), dopo la scioccante operazione di Tel Aviv che ha fatto esplodere la tensione con la Repubblica islamica. E Tajani che fa? Alza lo sguardo al cielo di fronte alle domande dei giornalisti che alla spicciolata gli si avvicinano cercando lumi sull’evoluzione degli eventi futuri. Come a dire “non c’è tanto da fare”. «E un caffè, grazie».

Immagini di una giornata estiva qualunque in parlamento, che consegnano l’impotenza della diplomazia di Roma, peraltro durante la presidenza di turno del G7. Un’impotenza confermata dall’appello che il ministro ha rivolto ieri all’Iran invitando il governo di Teheran alla «moderazione e a contribuire a una fase di de-escalation in tutta la regione». Chissà se verrà ascoltato. Domenica un altro sussulto con la convocazione del vertice degli omologhi del G7, appunto.

Più Transatlantico che Iran

In fondo per qualche minuto in più trascorso in buvette ci potrebbe essere una ricaduta politica importante, almeno in ottica nostrana. Il suo presidio in Transatlantico è stato utile per marcare il territorio durante la “campagna di rafforzamento” del gruppo, visto che alcuni deputati di Azione e Italia viva, sono in procinto di passare con Forza Italia, amareggiati per il naufragio del Terzo polo. E se qualcuno cercava qualche spiegazione, un motivo in più per andarsene, il leader azzurro era lì, pronto a dare l’ultima spinta per convincere gli interlocutori. Insomma, va bene il clima surriscaldato in Iran, ma una pattuglia più forte di parlamentari merita attenzione. Specie per un segretario di partito.

La dottrina non è tanto dissimile da quella di Giorgia Meloni, che ha preferito attizzare la polemica su Angela Carini e l’incontro di boxe con l’atleta algerina, Imane Khelif, invece di spendersi con la stessa vivacità sui dossier internazionali. Tajani si è adeguato e ha seguito lo stile alla camomilla, quello che lo ha puntellato al comando del partito fondato da Silvio Berlusconi facendo addirittura crescere i forzisti con tanto di boom di tessere e bilancio in attivo.

Per carità, nella successiva intervista al Corriere della Sera ha garantito un impegno «senza sosta» per cercare una mediazione. Tra una dichiarazione e l’altra sulle tensioni internazionali, qualche ora dopo è andato a parlare con gli industriali della nautica al Club nautico Versilia, benedicendo la candidatura di Ciro Costagliola a sindaco di Viareggio.

E al momento non sono all’ordine del giorno iniziative particolari per tentare la missione quasi impossibile di frenare l’escalation. È chiaro: la partita si gioca su altri tavoli. Per questo Tajani non ha disdegnato di presenziate a un talk, organizzato a Campiglia Marittima, in provincia di Livorno, per raccontare gli obiettivi futuri di Forza Italia. Nel frattempo, il vicepremier ha pure continuato il tour per le carceri, come annunciato nei giorni scorsi, visitando la casa di reclusione di Paliano, in provincia di Frosinone.

In un’estate di campagne politiche e di comunicazione, la battaglia garantista sarà il marchio distintivo di Tajani, a braccetto con i Radicali italiani (da non confondere con quelli di +Europa).

Sovranisti di periferia

C’è perciò il paradosso del governo sovranista, che vuole riportare l’Italia al centro dell’Europa, ma di fronte al conflitto in Medio Oriente non riesce a essere affatto la grande nazione, vaticinata da Giorgia Meloni e dagli alleati, ma un paese piccolo, collocato alla periferia dell’occidente. Peraltro, se Bruxelles è afasica, Roma come potrebbe mai sgolarsi, è il ragionamento pragmatico che rimbalza dai corridoi di governo. «Bisogna essere realisti», è il discorso fatto a microfoni spenti. Ma è pur vero che l’aura non è quello di un governo Meloni votato al dialogo, aduso alla mediazione.

Non funziona nemmeno tanto il fatto che storicamente le relazioni tra Italia e mondo arabo siano state proficue. I governi italiani – nei decenni – sono stati un punto di riferimento in questo senso. Poi il capitale di fiducia reciproca si è eroso ed è stato dilapidato.

Dal ministero degli Esteri c’è l’ammissione che davanti a uno scenario così complicato, non si può fare granché. Ma d’altra parte c’è la rivendicazione di quanto è stato fatto nei giorni scorsi, un bilancio considerato positivo. La versione della Farnesina racconta di una diplomazia italiana che ha provato a lasciare il segno soprattutto per una tregua a Gaza.

Contatti costanti e colloqui informali stavano apparecchiando il tavolo per un percorso verso la pace, per questo Roma era stata scelta come sede del confronto. La concomitanza di eventi non ha aiutato: prima le operazioni contro Hezbollah, che hanno ucciso Fouad Shukr, fidato consigliere di Hassan Nasrallah, leader indiscusso dell’organizzazione sciita.

Lo sforzo italiano è stato orientato a normalizzare i rapporti proprio al confine tra Libano e Israele, allontanando di decine di chilometri Hezbollah dalla blu line, nell’ottica di mettere in sicurezza la zona e i militari italiani di stanza in quell’area. Così come ci sono state telefonate con i ministri degli Esteri di paesi arabi, dagli emiratini ai libanesi, e con una intensa conversazione con i libanesi.

Poi l’eliminazione di Haniyeh ha rovesciato il tavolo, i negoziati di pace si sono trasformati in una scalata impossibile. Allora Tajani ha preferito passare qualche ora alla Camera. Almeno si stava più tranquilli.

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