Uno studio mostra quanto si differenzia la percezione dello spazio di notte tra uomini e donne. La pianificazione attenta alle questioni di genere però non si esaurisce nel problema sicurezza
Scegliere una strada più illuminata o frequentata anche se più lunga piuttosto che quella più breve ma con tratti al buio. Decidere se raggiungere o meno gli amici in un locale più distante se poi bisogna tornare a casa da sole di notte. Preferire un lavoro che non preveda di rientrare la sera troppo tardi se non si possiedono mezzi privati.
Le donne si muovono nello spazio pubblico mettendo in atto una continua valutazione del rischio, che si traduce spesso in una forte limitazione della loro libertà personale.
Secondo un rapporto di Censis e Federsicurezza, il 75,8 per cento delle donne ha paura di camminare per strada e di prendere i mezzi pubblici dopo il tramonto. Per l’Istat, solo il 51 per cento delle donne si sente sicura di uscire la sera nella zona in cui vive.
Nel suo saggio La città femminista. La lotta per lo spazio in un mondo disegnato da uomini, la professoressa di Geografia e Ambiente Leslie Kern definisce “città della paura” questa sensazione di pericolo provata dalle donne nello spazio urbano.
La mappa mentale
Uno studio condotto dal professore di salute pubblica della Brigham Young University Robbie Chaney, pubblicato sulla rivista Violence and Gender, mostra quanto sia diversa l’esperienza di tornare a casa a piedi di notte per le donne rispetto agli uomini. I ricercatori hanno mostrato ai 600 partecipanti, di cui il 56 per cento donne e il 44 per cento uomini, delle fotografie raffiguranti alcune aree dei campus di quattro università dello Utah, diverse per illuminazione (diurna o notturna) e possibilità di fuggire facilmente in caso di pericolo.
È stato chiesto loro di immaginarsi mentre camminavano in quegli spazi e poi di indicare le aree delle foto che catturavano la loro attenzione. Utilizzando lo strumento della mappa di calore di Qualtrics, i ricercatori hanno selezionato le caratteristiche che hanno maggiormente colpito le persone coinvolte.
Mentre gli uomini si sono concentrati sulla destinazione che avrebbero voluto raggiungere o su particolari come un lampione, il sentiero da seguire o un cestino della spazzatura, lo sguardo delle donne si è rivolto maggiormente a potenziali pericoli: aree esterne al percorso, cespugli, zone meno illuminate vicino alla strada.
Lo studio evidenzia come le donne fossero più propense a elaborare “mappe mentali” basate su esperienze passate o altre informazioni «per evitare luoghi considerati rischiosi». A muovere le scelte, la paura di subire stupri e abusi sessuali. Queste risposte, collegate alla percezione di controllo e sicurezza, aumentano la preoccupazione, definita come «una catena di pensieri ripetitivi vissuti come relativamente incontrollabili».
Pensato per gli uomini
La differenza tra l’esperienza maschile e quella femminile nell’abitare lo spazio urbano rivela quanto questo sia tutt’altro che neutro, perché «è sempre stato pensato per gli uomini, mentre quello delle donne era la casa», afferma Chiara Belingardi, ricercatrice e titolare del corso in Sustainable Community Planning dell’università La Sapienza di Roma, esperta di femminismo urbano. «Quindi le esigenze degli uomini sono sempre state tenute più in considerazione come se fossero un universale, che in realtà universale non è».
Una città costruita in questo modo, la stessa su cui si fonda la distinzione tra lavoro retribuito e lavoro di cura, dunque, non fa che rispecchiare le strutture di potere della società: rafforza la divisione stereotipata dei ruoli di genere, e relega le donne nello spazio domestico. Come scrive la giornalista Caroline Criado Perez nel suo saggio Invisibili. Come il nostro mondo ignora le donne in ogni campo. Dati alla mano, «quando i pianificatori non tengono conto del genere, gli spazi pubblici diventano di default spazi maschili».
Questa mancanza di neutralità non incide solo sulla percezione del pericolo delle donne e sul rischio di subire violenze e molestie, ma anche su una serie di barriere che modellano l’esperienza che si fa dello spazio urbano. Basti pensare alle difficoltà delle madri a utilizzare i mezzi pubblici con i passeggini, alla mancanza di rampe o ascensori, ai marciapiedi troppo stretti per le ruote delle carrozzine. O a quelle causate dalle barriere architettoniche alle persone con disabilità, all’assenza di aree per bambini o anziani.
La conseguenza di uno spazio disegnato da uomini e per uomini è dunque una città costruita sull’idea di un solo tipo di persona, escludente per tutte le altre. «Nello stesso spazio posso scegliere di costruire un parcheggio, utile per un certo tipo di persone, oppure una piazza con delle panchine, utile per un altro tipo di persone», spiega Belingardi.
«Una città pensata per un bambino o una bambina è diversa da quella pensata per chi deve andare velocemente al lavoro, o per una persona anziana che per percorrere una strada ha bisogno di frequenti punti di riposo. O ancora per una donna, che ha bisogno di più illuminazione».
Urbanistica femminista
Un approccio diverso alla città è quello dell’urbanistica femminista, che guarda alla gestione dello spazio urbano in una prospettiva di genere e intersezionale, pensandolo come luogo accogliente per tutte le persone che lo vivono: donne, bambini, anziani, persone Lgbtq+, persone con disabilità, categorie sociali marginalizzate, classi meno abbienti.
Per disegnare una città a misura di ogni persona, è necessario che le proposte arrivino dalle donne e dalle altre soggettività normalmente escluse dalla pianificazione urbana, dal confronto delle diverse esperienze ed esigenze.
Ripensare i luoghi in una prospettiva transfemminista «significa immaginare una città che consideri l’esperienza urbana di tutte le persone che la vivono», dice Belingardi. Alla «città della paura», infine, vanno contrapposti spazi del desiderio che mettano al centro le relazioni per disegnare una nuova mappa della città.
«C’è bisogno di luoghi delle donne, perché abbiamo necessità di ritrovarci e di mettere insieme le nostre esperienze per poi poter fare anche delle proposte di cambiamento», afferma la ricercatrice, secondo cui in ogni città dovrebbe esserci almeno una casa delle donne: «Quando lo spazio delle donne è uno “spazio scelto”, questo permette loro di stare in quello pubblico in maniera migliore, più forte. In maniera anche politica».
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