Altro che blitz per eleggere il suo consigliere giuridico Francesco Saverio Marini a giudice costituzionale. L’azzardo non è riuscito e ieri il parlamento in seduta comune è stato il teatro di un fallimento su tutta la linea della strategia di Giorgia Meloni.

La premier paga così una accelerazione mal calcolata e frutto di una crisi di nervi tutta interna palazzo Chigi, che si è tradotta in un tentativo di sfondamento muscolare per esorcizzare i fantasmi di «infami» e «talpe» dentro il partito. Risultato: dopo una nottata in cui il centrodestra aveva ostentato sicurezza sul fatto di avere gli almeno 363 voti necessari, il messaggio di tarda mattinata ai parlamentari ha sancito il passo falso: «Scheda bianca».

La cronaca della giornata è da manuale: sovraffollamento di parlamentari di centrodestra sul lato destro del Transatlantico, ligi alla chiamata alle armi, compresi sottosegretari, viceministri e ministri non all’estero per impegni inderogabili. Tutti con la consegna di come votare – ogni partito aveva previsto un suo modo di scrivere il nome del candidato, così da poter contare i voti anche a scrutinio segreto – ma anche con la consapevolezza del rischio di dietrofront. «Siete qui per niente», è la chiosa di un forzista navigato, «Senza almeno 400 voti certi un giudice costituzionale non si elegge, basta guardare lo storico». Sullo stesso tenore è la battuta di un big leghista: «Ci sarà poco da vedere».

Da qualsiasi lato la si guardi, infatti, in conti non tornano: anche con la precettazione di tutti gli eletti, quattro voti degli autonomisti e sette del misto, la soglia dei tre quindi è irraggiungibile. L’unica chance di eleggere Marini sarebbe stata quella di poter contare sul sostegno uno dei gruppi di opposizione.

Sul lato sinistro, invece, poche facce placide: dopo la riunione in mattinata del Pd, infatti, c’è la conferma che il muro delle opposizioni tiene e che nessun gruppo entrerà in aula. Il modo perfetto per evitare ogni rischio e scongiurare che qualche lusinga convinca qualche singolo parlamentare a fare da stampella alla maggioranza. Fonti interne raccontano che i rapporti tra Giuseppe Conte e Elly Schlein siano al minimo storico e che tra Conte e Meloni un qualche abboccamento sul giudice costituzionale ci sia stato, ma il leader 5S sapeva che da un tradimento del genere non sarebbe più potuto tornare indietro.

Il risultato è una debacle della tattica meloniana e un tentativo di salvare il salvabile votando scheda bianca per non bruciare il nome di Marini. Il giurista, tuttavia, esce malconcio dopo tre giorni nel limbo delle cronache e di fuoco dall’opposizione sul suo conflitto di interessi in quanto autore della riforma del premierato. Alla fine la conta si chiude con 323 schede bianche, quaranta in meno rispetto a quelle necessarie per eleggere il giudice, 10 nulle e 9 voti dispersi. Le defezioni – 28 gli assenti – giustificate con l’annuncio di scheda bianca.

La debacle

Alla fine, il risultato è quello di due letture opposte di quanto accaduto. La maggioranza si coordina nell’attaccare la sinistra che «dice no a tutto», è il commento di Matteo Salvini, e «pensa solo alle sue divisioni interne. L’opposizione non riesce a trovare una sintesi e allora non viene a votare, ma così tiene bloccata l’Italia» chiosa il responsabile dell’organizzazione di FdI, Giovanni Donzelli. Lo spin è quello di imputare alla minoranza lo scarso senso delle istituzioni e lo sgarbo al Colle, che da mesi chiede l’elezione del giudice.

Con due dati di realtà esplicitati: il nome di Marini è ancora perfettamente in lizza «perché non ci facciamo dire dalle opposizioni chi eleggere», con la convinzione «alla fine qualcuno dentro le opposizioni romperà il fronte». Sul fronte opposto, invece, la segretaria del Pd Elly Schlein ha detto che «la compattezza delle opposizioni ha fermato la maggioranza» e ha auspicato che ora ci possa essere dialogo, «non ci saremmo trovati così se ci fosse stato prima». Anche Conte ha detto che «li abbiamo lasciati da soli in Aula con le loro paranoie». E la richiesta, per aprire un dialogo, è quella di cambiare il candidato.

Quel che filtra, tuttavia, è che la maggioranza non si arrende: un nuovo tentativo di elezione potrebbe essere ricalendarizzato già la prossima settimana e così fino al 12 novembre, data in cui è fissata l’udienza per il ricorso delle regioni alla Consulta sulla riforma dell’autonomia. E non si è interrotta nemmeno la caccia al delatore che ha girato ai giornali le chat interne con i messaggi di Meloni sul voto per la Consulta. Il capogruppo alla Camera, Tommaso Foti, a Tagadà ha detto che la chat incriminata era quella della precedente legislatura, dunque la ricerca della talpa ora si concentrerebbe sul qualche ex vendicativo.

Il risultato politico, infine, è quello di un plateale inciampo non tanto della maggioranza quanto di Fratelli d’Italia e una oggettiva responsabilità di Meloni con i suoi cattivi consiglieri, che l’hanno convinta che i numeri per la forzatura d’aula si sarebbero potuti trovare. Il tutto, per una nomina alla Consulta che – anche se riuscisse – rischia di essere una vittoria di Pirro.

Visto l’esito di oggi, l’elezione probabilmente slitterà oltre il 21 dicembre, quando completeranno il mandato altri tre giudici costituzionali e sarà possibile una nomina “a pacchetto” di tutti e quattro. Complice il voto sulla finanziaria, la nuova seduta a camere riunite potrebbe slittare a gennaio.

La Corte, però, deve convocare la camera di consiglio per decidere sull’ammissibilità del referendum sull’autonomia entro il 20 gennaio. Dunque, anche se il centrodestra riuscisse ad eleggere tre giudici su quattro, lasciandone uno alle opposizioni, difficilmente la nuova composizione potrà incidere su quella specifica valutazione.

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