- «Ringrazio chi si è battuto per la sua liberazione»: queste le prime parole di George Zaki dopo l'ordine di scarcerazione per suo figlio Patrick da parte del tribunale di Mansoura, dopo 22 mesi di detenzione.
- Il provvedimento non pone fine al processo, che riprenderà a febbraio. Patrick è a piede libero ma resta indagato per «diffusione di notizie false e diffusione di terrore tra la popolazione». Un destino comune a molti attivisti e oppositori egiziani, costretti da anni in una sorta di libo giuridico.
- C'è chi attribuisce la decisione della corte a un tentativo di distensione del regime di el-Sisi nei confronti dell'Italia dopo il caso Regeni. Intanto la difesa di Zaki studia le carte e chiede di acquisire nuovi documenti.
«Alhamdulillah, Alhamdulillah». Grazie a Dio, grazie a Dio. George Zaki, il padre di Patrick, lo ripete come un mantra da quando i giudici del tribunale di Mansoura hanno firmato l'ordine di scarcerazione per suo figlio. «Adesso non vedo l'ora di poterlo riabbracciare», confida emozionato al telefono. «Ringrazio quanti si sono battuti per la sua liberazione, sono grato a tutti voi».
Sono terminati così fra le urla di giubiulo di familiari e avvocati, i ventidue mesi di detenzione del giovane ricercatore egiziano dell'università di Bologna. Un'ottima notizia che tuttavia non pone fine a un calvario giudiziario destinato a riprendere il prossimo febbraio, quando ricominceranno le udienze.
Il calvario non è finito
Come specificato dalla corte e confermato dai suoi avvocati, infatti, Zaki resta sotto accusa per «diffusione di notizie false e diffusione di terrore tra la popolazione» sulla base di un articolo pubblicato su al-Darraj nel 2019 che descriveva la situazione della minoranza cristiano copta in Egitto. Secondo il suo legale, Hoda Nasrallah, ci sarebbero anche altri articoli scritti da Zaki che sono entrati nel fascicolo del processo ma dei quali la difesa non riesce ad autenticare la veridicità.
Il destino di Patrick, anche dopo il provvedimento di rilascio, diventa comune a quello di altri detenuti di coscienza. Fuori dalla cella ma senza poter lasciare il paese e in un limbo di libertà provvisoria in cui tutto può ancora succedere.
È quello che è successo, per esempio, ai tre dirigenti di Eipr, l'organizzazione con la quale collaborava il giovane e di cui fa parte la squadra della sua difesa. Arrestati nel novembre del 2020 e rilasciati poche settimane dopo, i tre sono ancora sotto indagine. A processo non ci sono mai andati ma la loro condizione non ha ancora permesso loro di tornare a lavorare .
Hossam Bahgat, l'attuale direttore di Eipr, invece è ancora sotto indagine ma, nonostante tutto, continua ad andare nel suo ufficio. Eppure dal 2016 non può lasciare il paese e i suoi beni sono stati confiscati perché da 10 anni è accusato di aver ricevuto fondi stranieri assieme ad altri centinaia di lavoratori del no-profit e decine di Ong.
Proprio Bahgat, la scorsa settimana, era stato condannato a una multa di circa 560 euro in un processo relativo a un'altra indagine dove era accusato di aver criticato con un tweet il capo della commissione elettorale durante le elezioni legislative del 2020.
Una sentenza lieve, visto che il direttore di Eipr rischiava una pena sino a tre anni di carcere, e che è stato interpretato come un segnale di apertura anche in vista dell'udienza di Zaki.
Segnali da decifrare
Ma il comportamento delle autorità del Cairo resta sempre lo stesso. Piccole concessioni, operazioni quasi di maquillage, dove il governo allenta la morsa ma non fa cadere completamente le accuse e i casi. Libera o scagiona alcuni attivisti ma continua ad avere 60.000 detenuti di coscienza, oppure lancia la costruzione di nuove carceri all'americana senza ammettere mai che le torture siano rimaste l'ingrediente base del sistema di repressione egiziano.
«Il rilascio di Zaki fa parte di una nuova politica sui diritti umani della presidenza di Abdel Fattah el-Sisi», dice Mohamed Anwar Sadat, ex parlamentare e membro del nuovo Consiglio nazionale per i diritti umani egiziano che ha fatto da interlocutore tra il governo del Cairo e l'ambasciata italiana. «E soprattutto c'è una chiara intenzione di normalizzare i rapporti con l'Italia dopo la vicenda di Giulio Regeni».
Secondo Sadat, anche il rinvio a giudizio era stato un segnale distensivo ma dopo due anni l'Italia ha comunque ottenuto poco, pochissimo.
Da un lato, sulla vicenda Regeni, non è mai riuscita ad ottenere gli indirizzi degli agenti della National Security accusati dell'omicidio del giovane ricercatore di Fiumicello (cosa che ha portato all'annullamento del rinvio a giudizio nel processo italiano).
Dall'altro due anni di mobilitazione, per la verità più da parte della società civile che dalle istituzioni, hanno avuto senz'altro un ruolo nella scarcerazione di Zaki, ma in mancanza di un'assoluzione è ancora impossibile capire quale sarà il finale della vicenda. «Dopo il lancio per la nuova strategia dei diritti umani ci aspettiamo che el-Sisi farà altre concessioni», dice Sadat.
Difesa ancora al lavoro
Ma quello che resta incerto è quali saranno queste concessioni e chi saranno i destinatari. La difesa di Zaki lo sa bene, per questo durante l'udienza ha chiesto l'acquisizione di nuovi documenti per smontare l'impianto accusatorio.
Sono le immagini registrate dalle telecamere di sicurezza dell'aeroporto del Cairo il 7 febbraio 2020, il giorno in cui Zaki è stato arrestato e portato via dalle forze di sicurezza egiziane. Il fermo è avvenuto al controllo passaporti ma nelle carte delle indagini, invece, risulta che il giovane sia stato arrestato a Mansoura il giorno dopo: uno dei tanti bug di questa inchiesta.
Per questo i legali hanno chiesto una prova che dimostri cosa è successo veramente: ossia che Patrick, dopo essere stato portato via dall'aeroporto è scomparso per più di 20 ore ed è stato vittima di tortura.
Sempre per dimostrare che il fermo di Zaki è illegittimo, la difesa ha richiesto anche due verbali, il primo è del funzionario della sicurezza nazionale che documentò l'arresto al Cairo, il secondo è quello redatto dall'agente di polizia che ha registrato il fermo a Mansoura. Nasrallah ha chiesto anche gli atti di un processo civile e un testimone che confermerebbe la veridicità degli articoli di Patrick sulla situazione dei cristiani, smontando, dunque l'accusa di notizie false.
Oltre al processo, resta l'incognita dei 10 post di Facebook, che secondo la difesa sarebbero falsi, e che invece la Procura sostiene essere apparsi sul profilo di Zaki. Erano state le prime prove con cui il giovane ricercatore era stato arrestato. Fanno ancora parte del faldone d'inchiesta e anche queste potrebbero portare a nuovi risvolti giudiziari.
Di tutto questo, però, ci sarà tempo per occuparsi. Oggi per i familiari e gli amici di Patrick e per la comunità internazionale che si è stretta intorno a lui durante questi ventidue difficilissimi mesi è un giorno di ritrovata serenità.
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