Si celebrano nel 2024 i centocinquant’anni della nascita di Luigi Einaudi. Il liberale Einaudi era diffidente della massima vox populi vox dei, convinto che la distanza tra democrazia e demagogia fosse labile se non stabilita da una costituzione che mettesse ordine e distinguesse tra il principio di maggioranza dal potere della maggioranza
Si celebrano nel 2024 i centocinquant’anni della nascita di Luigi Einaudi, il primo presidente della Repubblica eletto da un parlamento votato a suffragio universale, con voto libero e segreto.
Un liberale che si trovò suo malgrado a essere radicale di fronte all’avvento del regime liberticida di Benito Mussolini; convinto che il potere della maggioranza non dovesse mai persuadere completamente i cittadini della sicurezza delle loro libertà.
Nell’introduzione al Saggio sulla libertà di John Stuart Mill, tradotto nel 1925 dalla casa editrice di Piero Gobetti (che sarebbe morto l’anno dopo in seguito alle percosse dei fascisti), Einaudi aveva già spiegato come il fascismo fosse «un tentativo di irregimentazione della nazione». L’eco di quella preoccupazione ritornava vent’anni dopo, in un articolo pubblicato nel 1945, all’indomani della Liberazione.
Democrazia e demagogia
Il potere del voto, scriveva Einaudi, dispone la minoranza ad accettare il volere della maggioranza senza «inchinarsi ed ubbidire». «Eppure, noi sentiamo di non essere persuasi. Sentiamo che vi può essere una tirannia dei cinquantuno altrettanto dura, altrettanto odiosa, come la tirannia dell’uno e dei pochissimi».
Il liberale Einaudi era diffidente della massima vox populi vox dei, convinto che la distanza tra democrazia e demagogia fosse labile se non stabilita da una costituzione che mettesse ordine e distinguesse tra il principio di maggioranza dal potere della maggioranza.
Mettere ordine voleva dire svelare l’«artificio» per cui la decantata maggioranza non era che una minoranza. Il problema non sta nel costruire un governo di maggioranza o nel votare direttamente il capo del governo nell’illusione che con lui o lei la maggioranza parli. Il problema sta nel comprendere che «qualunque sia la struttura formale dello stato, il potere spetta sempre ad una piccola minoranza».
I fondamenti della tolleranza
Nel contesto del potere statale, che può muovere apparati contro le libertà di parola e di dissenso, occorre diffidare della retorica del governo eletto direttamente dal popolo. È invece al pluralismo partitico e politico, e quindi al parlamento, che dobbiamo guardare come a un’ulteriore sicurezza che ci protegga dal potere della «piccola minoranza» che gestisce lo stato col consenso della maggioranza.
Qui trova posto la tolleranza. La quale, in un governo democratico costituzionale, non è un dono della maggioranza o un peso che questa sopporta non potendo liquidare la minoranza. Tolleranza, come scrisse un altro grande liberaldemocratico che subì la durezza del regime plebiscitario nazista, Hans Kelsen, è una parola importantissima ma ambigua se non retta sulle giuste radici.
Ovvero, sono i diritti civili e politici il fondamento della tolleranza e del pluralismo, non la graziosa concessione della maggioranza. A questo fine, furono redatte le costituzioni del secondo dopo guerra, scritte avendo in mente le maggioranze plebiscitarie del capo del governo. Einaudi era limpido. E specificava che i limiti posti dalle costituzioni sono quelli che le generazioni di ieri impongono su quelle del presente, nel senso che la Costituzione non è una legge che deve aderire alla volontà di chi governa.
Come ha scritto Stephen Holmes alcuni anni fa, essa è come Peter sobrio che scrive le regole pensando a Peter ubriaco. Le costituzioni sono scritte per fermare la sempre possibile ubriacatura plebiscitaria dei pochi, e obbligano a mettere chi governa nella condizione di sentire sempre il fiato sul collo dell’opposizione, parlamentare e d’opinione.
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