Il Pd è stato buono, e cioè fedele e responsabile a Draghi, ma la caduta del governo rischia lo stesso di portargli un sacco pieno di carbone. Dentro non c’è solo la disastrosa fine del «campo largo», che ormai con i draghicidi grillini (ormai nella categoria «traditori dell’Italia», con leghisti e forzisti, «percorso chiuso» giurano al Nazareno) non si può più immaginare.

Dentro c’è anche il rischio di uno slittamento politico. Enrico Letta da ieri ha spiegato ai suoi parlamentari, alla segreteria e ai ministri che in campagna elettorale dovranno battere sul tasto della responsabilità e dell’affidabilità del Pd. Il guaio è che così si arriva a un passo dalla promessa di continuità con il governo del banchiere. Per l’ala riformista del Pd, quella “draghista” è un assist insperato, per l’ala sinistra una mezza iattura.

In realtà Letta non l’aveva pensata così la campagna elettorale. Fino a mercoledì, davanti ai suoi, aveva sempre sottolineato che da una parte c’erano «le cose che si possono fare con questo governo», quello di unità nazionale con la Lega e Forza Italia, dall’altra «quelle che saranno nel nostro programma per il 2023», diritti civili ma anche sociali.

Ma la tentazione di raccogliere l’eredità del premier disarcionato è forte, e sarebbe uno spreco non metterla a profitto. «Spero che vinceremo e continueremo con il programma di Draghi», ha spiegato ieri a Bloomberg tv, tanto per cominciare. «Avevamo un governo che lavorava molto bene, che aveva il rispetto dell’intera comunità italiana, non solo quella d’affari ma anche la popolazione, ed era rispettato anche a livello europeo e mondiale». Uno scarto, a occhio non verso il lato sinistro.

Ragionamento che però al Nazareno viene confutato, se non proprio negato. «Una cosa è promettere di portare a termine impegni con l’Europa, e con il mondo», Ucraina innanzitutto, viene spiegato. «Il Pd ha sempre detto che Draghi è il nostro governo ma non c’è stata una sola virgola nel discorso di Draghi che abbia in qualche modo evocato la responsabilità del Pd, né sui temi né sulla postura e sul metodo», è il ragionamento.

Questo “asse” di fatto, contestato dalla destra di governo, ha sicuramente giovato al Pd sia nei sondaggi che sulla linearità dei comportamenti. «Un’altra è l’identità del Pd», insomma sostenere lealmente Draghi non ha impedito battaglie come quelle per i diritti civili, dalla legge Zan al fine vita alla depenalizzazione della cannabis. Ma anche, ed è quello che viene più sottolineato, quelle sulla tassa di successione per i supericchi, la famosa dote per i giovani, tema di certo non compreso nell’agenda Draghi. «Il Pd ha spinto sulle proposte redistributive, quelle per una fiscalità progressiva. Ha ottenuto la tassazione degli extraprofitti delle aziende energinvore per finanziare i bonus alle famiglie in difficoltà».

Scaricati dunque i Cinque stelle a vantaggio dei fuoriusciti con il ministro Luigi Di Maio, gli alleati non potranno essere misurati solo sul tasso di “draghismo”. Altrimenti il Pd dovrebbe rinunciare all’unica lista fin qui in campo a fianco del Pd, quella dei “rossoverdi” di Sinistra italiana ed Europa verde, che – con un solo deputato, Nicola Fratoianni e una sola senatrice, Elena Fattori – non hanno mai votato la fiducia.

D’altra parte i “draghiani” del Pd incassano un punto a favore. Il più scatenato è il senatore Andrea Marcucci: «È Mario Draghi, la sua esperienza di governo, il naturale riferimento della nostra campagna elettorale, la guida del fronte repubblicano ed europeista che dovrà fronteggiare gli avventurieri del sovranismo». Di qui discende che gli alleati sono i moderati, Renzi, Calenda, Di Maio, i liberali che hanno lasciato Forza Italia». Insomma, il nuovo Pd deve guardare al centro.

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