- Confrontarsi su tutto, anche sull’identità e sul nome. E pure sul simbolo. Lo ha messo nero su bianco Enrico Letta, nella lettera che ieri ha rivolto alle iscritte e agli iscritti «sul Congresso Costituente del Nuovo Pd» dopo le elezioni del 25 settembre che hanno visto il Partito democratico tra gli sconfitti.
- Per il «nuovo Pd» è importante avere un vero simbolo, ricco di significato e in grado di suscitare emozioni; dovrebbe però prima definire la sua identità in modo chiaro, altrimenti racchiuderla in un simbolo sarebbe impossibile.
- Con questo problema il Pd fa i conti fin da sempre e la questione ciclicamente si ripresenta: se non la si affronta seriamente, il nuovo simbolo rischia di dire poco e sarebbe un’altra sconfitta. In partenza.
Confrontarsi su tutto, anche sull’identità e sul nome. E pure sul simbolo. Lo ha messo nero su bianco il segretario del Pd Enrico Letta, nella lettera che ieri ha rivolto alle iscritte e agli iscritti «sul Congresso costituente del nuovo Pd» dopo le elezioni del 25 settembre che hanno visto il Partito democratico tra gli sconfitti.
È lo stesso segretario uscente (che ha già escluso di ricandidarsi) a dichiarare di voler «arrivare presto a un nuovo Pd e a una nuova leadership».
No al maquillage
Non si parla di un nuovo soggetto politico (anche se qualche persona scaramantica l’ha già proposto), ma di un «nuovo Pd», ben diverso da quello attuale: perché il percorso abbia successo, non dovrà somigliare a un’operazione di maquillage, di stampo gattopardesco («Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi»).
L’osservazione vale per tutte le discussioni prospettate da Enrico Letta, incluse quelle sul nome e sul simbolo, che riguardano di più l’immagine del «nuovo» partito.
Non lascia indifferenti che proprio la figura di vertice del Partito democratico metta pubblicamente in discussione (o, volendo, a disposizione) i segni distintivi del partito e proponga di coinvolgere gli iscritti, attraverso i circoli o strumenti simili alle Agorà: in fondo, è il segno più rilevante del cambiamento invocato.
Il simbolo, storia recente
Le tentazioni di mettere mano alle insegne dem (e non solo a quelle) non sono però storia di oggi. Il 10 gennaio 2020 l’allora segretario Nicola Zingaretti annunciò propositi simili («Vinciamo in Emilia-Romagna, e poi cambio tutto: sciolgo il Pd e lancio il nuovo partito»), senza prospettare discussioni: arrivò poi la pandemia e gli impegni furono altri.
Anche prima, nel partito non erano mancati suggerimenti di ritocchi alla denominazione o al fregio. Tra il 2016 e il 2017, per dire, era circolato un nome dimezzato, «Democratici», che non era nuovo: «i Democratici» era la creatura politica di Romano Prodi e Arturo Parisi, nata nel 1999 con l’asinello simil-statunitense e quasi disneyano concepito da Francesco Cardinali (AdvCreativi).
Già nel 2010, tre anni dopo la nascita del partito, Debora Serracchiani aveva chiesto di sostituire un «logo asettico» con «un nuovo simbolo identitario».
Ecco, «simbolo» e «identitario» sono parole chiave fondamentali. Nel corso degli anni molte persone si sono dette insoddisfatte del fregio realizzato nel 2007 da Nicola Storto, allora giovane creativo dell’agenzia Inarea.
Le richieste
Il problema, per assurdo, era che il simbolo aveva rispettato troppo le richieste del committente, Walter Veltroni: doveva essere un fregio chiaro e immediatamente leggibile da chiunque e lo si realizzò con le iniziali del partito e il tricolore. Per questo, però, è sempre stato vissuto come marchio, non come simbolo, perché non c’era un’immagine definita in cui riconoscersi.
L’unica traccia simbolica era il rametto di ulivo: all’inizio non c’era, ma la nascente dirigenza del partito l’aveva voluto a ogni costo, per richiamare l’antenato di quel partito, appunto l’Ulivo voluto da Prodi nel 1995.
Le puntate della storia
In fondo, anche il Pci nel 1990, evolvendo nel Partito democratico della sinistra, aveva conservato il fregio storico, per tenere insieme le punt
ate della storia ed evitare che altri si appropriassero di quelle insegne. Allora, però, Bruno Magno aveva posto la doppia bandiera con falce e martello alla base di un vero simbolo, l’albero della sinistra (presto identificato con una quercia), un’immagine chiara, usata nella storia di quella parte politica e in cui in molti si sono riconosciuti.
Il rametto
Il simbolo del Pci rimase fino al 1998, quando si compì un altro passo con i Democratici di sinistra e la rosa del socialismo europeo sostituì falce e martello.
Dopo 15 anni di vita il Pd non è certo identico a quello delle origini né all’Ulivo, ma il rametto è rimasto: per questo, alla fine del 2013 Andrea Rauch – che aveva creato il simbolo per Prodi guardando il ramoscello di un ulivo di casa sua – aveva chiesto a Matteo Renzi di togliere quel microdettaglio dal simbolo, ma non fu ascoltato.
Per il «nuovo Pd» è importante avere un vero simbolo, ricco di significato e in grado di suscitare emozioni; dovrebbe però prima definire la sua identità in modo chiaro, altrimenti racchiuderla in un simbolo sarebbe impossibile.
Con questo problema il Pd fa i conti fin da sempre e la questione ciclicamente si ripresenta: se non la si affronta seriamente, il nuovo simbolo rischia di dire poco e sarebbe un’altra sconfitta. In partenza.
© Riproduzione riservata