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Il “pericolo fascista”, chiave della campagna elettorale del Pd contro FdI, è stato smorzato dal Corriere della Sera, che invece ha costruito la narrazione opposta di una destra da normalizzare.
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Oltre a trovare un interlocutore nel quotidiano dell’alta borghesia italiana, la leader Giorgia Meloni si è mossa nelle platee dell’establishment: applauditissima al meeting di Rimini di Comunione e liberazione, ben accolta anche dagli industriali di Cernobbio.
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Meloni è convinta che una legittimazione dei salotti buoni di Milano e Roma siano il tassello che manca, accanto al boom elettorale, per aprire la nuova fase politica della destra italiana. Chi questi salotti li abita è altrettanto certo di poter diluire e piegare il progetto di FdI, riportandolo nella prospettiva meno dannosa, sia a livello istituzionale che di impatto economico sui mercati internazionali.
Le settimane di campagna elettorale mostrano sia i movimenti evidenti dei partiti e dei rispettivi leader politici, che quelli nascosti dei gruppi di potere che si riposizionano e scommettono sul futuro. Ad attirare maggiore attenzione sono soprattutto i partiti di cui si pronostica la vittoria, soprattutto se la loro ascesa è rapida ed esponenziale.
Chi cresce velocemente nei consensi, infatti, di solito non ha una struttura stabile e ha bisogno di consiglieri all’altezza del nuovo peso politico, personalità illustri da nominare in un gran numero di posti e interlocutori nel mondo dell’informazione e della burocrazia ministeriale.
Nel 2018 questi movimenti erano stati visibili intorno al Movimento 5 stelle, nel 2022 quegli stessi gruppi si stanno ricollocando intorno a Fratelli d’Italia. Lo spostamento più evidente riguarda l’informazione e in particolare il Corriere della Sera. Il quotidiano di via Solferino ha tenuto una linea editoriale molto sobria nei confronti di Giorgia Meloni, che lo ha scelto come interlocutore privilegiato e anche come luogo per pubblicare le sue riflessioni sul futuro della società italiana.
La lettura autentica delle sue intenzioni e di quelle dei riluttanti alleati di Lega e Forza Italia, invece, è garantita dalle interviste del fedelissimo Guido Crosetto: voce rassicurante del buonsenso che interpreta e spiega le mosse di Meloni, smussando gli angoli quando serve.
Sul fronte giornalistico, il Corriere ha scelto di non enfatizzare il “pericolo fascista” spesso agitato dall’avversario di Meloni, Enrico Letta, e anzi di depotenziarlo. Lo ha fatto con uno dei più autorevoli commentatori del quotidiano come il giurista Sabino Cassese, che ha elencato le dieci anomalie del voto italiano. La settima era che «per differenziarsi dinanzi all’elettorato, vengono evocati il pericolo fascista e quello russo. Ma coloro che nutrono questi timori hanno ben poca fiducia negli anticorpi della nostra democrazia (il pluralismo, la varietà di voci con cui può parlare il popolo, l’esistenza di poteri contrapposti) e nella maturità della nostra opinione pubblica». Lo stesso ha fatto anche il vicedirettore del quotidiano, Antonio Polito, mettendo in guardia il giornalismo italiano, perché i commentatori di tutto il mondo ci guardano e «da noi si aspettano una conferma dell’allarme-fascismo», invece bisognerebbe dare spazio e far prevalere problemi più attuali.
A semplificare l’opera, poi, è stata la scelta netta di Meloni al momento dello scoppio della guerra in Ucraina: l’immediata collocazione atlantista e anti russa è stata vincente per collocarsi dalla parte giusta della barricata politica mondiale.
La differenza col M5s
Proprio quella di attualizzare e soprattutto normalizzare il ruolo politico di Fratelli d’Italia è stata la missione di Meloni da quando la campagna elettorale è iniziata. Oltre a trovare un interlocutore nel quotidiano dell’alta borghesia italiana, la leader si è mossa nelle platee dell’establishment: applauditissima al Meeting di Rimini di Comunione e liberazione, ben accolta anche dagli industriali del Forum Ambrosetti di Cernobbio. Poi video in varie lingue rivolti all’estero, per presentare il suo partito con un volto tranquillizzante e smentire quello arcigno dell’ideologia di estrema destra descritto dal Partito democratico, che nei salotti stranieri ha storica collocazione.
Mosse studiate, quelle di Meloni, che mostrano tutta la differenza rispetto al Movimento 5 stelle del 2018. Cinque anni fa l’obiettivo dei gruppi di interesse e di potere era quello di “civilizzare i barbari” dell’uno vale uno e il compito è stato all’inizio piuttosto complicato.
Difficili da collocare e con una schiera di eletti sconosciuti e imprevedibili, senza un vero vertice romano con cui parlare ma con un quartier generale opaco negli uffici della Casaleggio associati a Milano. Solo con il tempo è emersa del tutto la figura di Luigi Di Maio, prediletto per la naturale propensione a muoversi negli ambienti istituzionali e il primo a venir “normalizzato” sia dal sistema dei media che dall’establishment di potere. Fratelli d’Italia, invece, è un partito completamente diverso: radicato nella Roma dei ministeri, la gerarchia interna di Meloni ben conosce le regole del potere, anche se fino a ora ne ha fatto parte in modo limitato.
Il partito, fondato nel 2012 sulle ceneri di quel che rimaneva della tradizione del Movimento sociale e poi di Alleanza nazionale, alle elezioni del 2013 ha conquistato appena il 2 per cento, per poi crescere al 4 per cento nel 2018. Quasi dieci anni all’opposizione hanno insegnato a FdI a conoscere i meccanismi delle istituzioni, ma non certo a guidarle come potrebbe accadere, se i sondaggi verranno confermati, dopo il 25 settembre. Per questo, Meloni ha bisogno di quanti più amici possibile ed è disposta a farsi suggerire nomi d’area conservatrice, funzionali al progetto della sua nuova destra ma digeribili dall’establishment.
Inoltre, rispetto al Movimento 5 Stelle del 2018, FdI ha il vantaggio di condividere con i suoi nuovi interlocutori la certezza del primato della politica sia sull’antipolitica sia sul sapere tecnico. Questo rende il partito di Meloni un interlocutore chiaro, di cui è possibile prevedere le strategie e dunque anche tentare di condizionarle o comunque beneficiarne.
Ovviamente, ognuna delle parti ritiene che lo scambio sia alla pari o addirittura vantaggioso per sé. Meloni è convinta che una legittimazione dei “salotti buoni” di Milano e Roma siano il tassello che manca, accanto al boom elettorale, per aprire la nuova fase politica della destra italiana. Chi questi salotti li abita è altrettanto certo di poter diluire e piegare il progetto di FdI, riportandolo nella prospettiva meno dannosa, sia a livello istituzionale che di impatto economico sui mercati internazionali.
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