Dopo il grande pogrom di Hamas un anno fa, Israele vuole cambiare radicalmente l’assetto del Medio Oriente. Le origini del quadro che si vorrebbe costruire sono nei conflitti interni al mondo islamico e a quello ebraico. Dal patto del 1744 al dibattito sul sionismo, solo una prospettiva storica aiuta a districare il groviglio di oggi
Tre date chiave scandiscono questo tragico anno di guerra che ha visto ben presto tramutarsi il conflitto di Gaza in un massacro senza strategia, coperto dalla troppo generica sigla “sradicare Hamas”.
La prima è, ovviamente, il 7 ottobre di cui oggi ricorre l’anniversario. Data spartiacque della storia israeliana, segnata dal più grande pogrom anti-ebraico dai tempi della Seconda guerra mondiale. Un attacco di tale efferatezza da far impallidire il pogrom di Kielce del 1946, che già tanti strascichi ha lasciato nella minoranza ebraica, che vide ripresentarsi identico l’atavico antisemitismo anche nei momenti immediatamente successivi alla Shoà.
La seconda è la notte fra il 13 ed il 14 aprile, quando l’Iran lanciò trecento fra missili e droni verso il territorio israeliano, in risposta all’attacco israeliano del 1° aprile contro il palazzo consolare iraniano a Damasco, in cui persero la vita sedici persone, tra cui il nome illustre di Mohammad Reza Zahedi, comandante di spicco dei pasdaran.
Una prima linea rossa superata, che non sarà destinata a essere l’unica. A guardarlo dall’oggi fu non solo la prima risposta iraniana direttamente sul suolo israeliano (seconda linea rossa), ma anche un vero e proprio test per verificare l’efficacia dell’iron dome, il proverbiale sistema missilistico di difesa israeliano.
Teheran utilizzò, per usare un vocabolario gergale, «roba vecchia», infilando qua e là dei missili balistici, appunto per vedere se riuscissero a passare lo scudo protettivo, che in quel caso resse la forza d’urto di un attacco comunque imponente.
Fu, però, anche il momento che sancì la tenuta, diremmo definitiva, della Middle East Air Defense Alliance (Mead), l’alleanza militare fra Israele e l’asse sunnita firmatario di vecchi e nuovi accordi di pace, da alcuni un po’ troppo enfaticamente definita come la Nato del Medio Oriente. Giordania, Arabia Saudita e paesi del Golfo concedettero informazioni di intelligence e spazio aereo per consentire a Tel Aviv e Washington di organizzare il sistema difensivo.
La terza data è, manco a dirlo, il 17 settembre, giorno che rimarrà nella storia della strategia militare come quello dell’attacco ai cercapersone, in cui l’intelligence israeliana ha mutilato l’intera catena di comando di Hezbollah. Premessa all’attacco analogo dei walkie talkie immediatamente successivo e preludio agli eventi degli ultimi giorni: l’uccisione del leader di Hezbollah Hassan Nasrallah, una vera e propria istituzione in Medio Oriente, i bombardamenti su Beirut, l’invasione di terra del sud del Libano.
Se si sommano questi eventi al discorso, in inglese, di Netanyahu rivolto direttamente all’opposizione interna iraniana, si capisce che la retta che unisce i tre punti (7 ottobre, 14 aprile, 17 settembre) è il primo momento in cui emerge una qualche forma di strategia israeliana, che pare mirare a una vera e propria riscrittura del quadrante mediorientale, chiudendo una partita che si è aperta nel 1979, anno della rivoluzione khomeinista. Davvero uno degli eventi decisivi dell’intero Novecento, secolo «breve» ma molto, molto intenso. Il tutto con la benedizione di americani, sauditi e molti altri attori dell’area.
Il patto del 1744
Per comprendere la portata storica dell’assetto che sembra intravedersi dalla strategia israeliana bisogna, però, indietreggiare ulteriormente rispetto al momento in cui si insediò il regime degli ayatollah con una mossa che era al contempo politica e teologica. Bisogna tornare al 1744, momento di stipulazione del patto fra Muhammad bin Saud e il predicatore Muhammad bin Abd al Wahaab che, nella regione arabica del Nadj, diede vita al primo embrione di quella che diverrà nota come Arabia Saudita.
Raro caso di un paese che prende il nome di una famiglia. L’identità saudita si modellerà intorno all’insegnamento di al Wahaab, i cui discendenti spirituali si definiranno prima ahl tawhid (partigiani dell’unicità divina), poi a’immat al dawa al najdiyya (imam della predicazione najdi), per poi divenire definitivamente noti come salafiti, nome assunto anche da altri movimenti riformisti musulmani che, esattamente come il wahaabismo, predicavano un ritorno al monoteismo puro delle prime generazioni dell’islam, a cui il termine «salafita» rinvia.
Bersagli della loro dottrina: una serie di culti diffusi nella penisola arabica, a cominciare da quello dei santi, e lo sciismo, considerato alla stregua di una religione idolatra per aver elevato i discendenti di Alì, cugino e genero del profeta, a delle specie di divinità. Come ci hanno insegnato gli studi di Stéphane Lacroix, è una caricatura superficiale ridurre l’islam saudita a un monolite immutato nel tempo. Tutt’altro, la sua storia è segnata da una articolata dialettica riconducibile allo scontro fra «inclusivisti» ed «esclusivisti», che comincia a tracciarsi durante la conquista egiziana del Nadj del 1818.
I secondi professavano un wahaabismo radicale che impediva persino il contatto fisico con altre forme di Islam ritenute impure; i primi, pur mantenendo fede all’impostazione salafita, consideravano possibile un contatto, tanto da poter convivere con la presenza egiziana sul proprio territorio. Sono schemi puro/impuro che troviamo identici in ogni religione monoteista, dove le frange più integraliste sempre predicano un separatismo radicale. È un momento davvero cruciale della storia mediorientale, in cui s’affacciano almeno altri due attori che si riveleranno decisivi: l’Egitto, appunto, e l’occidente.
Di fronte all’occupazione egiziana, la nuova guida politica saudita Abd al Aziz Al Sa’ud farà ampio uso degli «esclusivisti» per rinsaldare un sentimento di unità nazionale contro lo straniero, finendo, però, per alimentare un potere alternativo, l’Ikhwan, con cui la corona entrerà in rotta di collisione una volta che, scacciati gli egiziani, si dimostrerà desiderosa di stabilire buone relazioni con i britannici presenti nell’area. Iniziò una feroce repressione, mentre ripresero quota gli «inclusivisti», diventati funzionali al nuovo corso politico. Siamo ormai verso gli anni Trenta del Novecento.
L’asse Arabia Saudita-occidente si rinsalderà sempre di più, anche grazie alla scoperta di ingenti quantità di petrolio nelle province orientali, la cui estrazione sarà affidata all’Aramco, società americana nata nel 1933, che ben presto diverrà uno Stato nelle Stato, anche formando una nuova classe dirigente locale.
Con la nascita della Fratellanza musulmana ad opera di Hassan Al Banna nel 1928, intanto, l’Egitto si candidava a essere il luogo delle forme più radicali di salafismo. Sarebbe davvero riduttivo definire la Fratellanza un movimento antimoderno. Diciamo che il suo obiettivo era, ed è, sviluppare una forma di modernità autoctona, alternativa al modello individualista occidentale.
Il suo progetto comprende, dunque, anche forme di economia assistenziale che noi definiremmo di marca solidale, se non socialista. Una modernità, secondo i suoi ideologi, fondata sui principi originari dell’Islam. Con questa agenda al contempo religiosa, politica e sociale era inevitabile lo scontro col potere politico, che risponderà secondo la consuetudine dei paesi arabi: feroce repressione.
Al Banna finirà ucciso al Cairo il 12 febbraio 1949, mentre il secondo grande teorico della Fratellanza Sayyid Qutb, dopo un processo che attirerà l’attenzione delle masse musulmane di mezzo mondo, verrà condannato a morte nel 1966. Suo fratello ed erede spirituale Muhammad, così come altri esponenti della confraternita repressa in patria, troverà rifugio nelle università saudite. I suoi corsi saranno seguiti da molti leader futuri dell’islam radicale. Tra questi, Ayman al Zawahiri e Osama bin Laden.
Riemerge, così, una sorta di clero clandestino facente capo alla Fratellanza che si oppone alla deriva filo-occidentale della corona. In fondo, siamo sempre all’interno delle coordinate dello scontro fra «esclusivisti» e «inclusivisti», ora rappresentati dal clero legato alla monarchia dei Sa’ud, stabilizzando l’asse fra potere spirituale e temporale all’origine dello Stato.
Allo stesso modo, si consolida un’alleanza fra monarchie del Golfo, governi nazionalisti arabi e corona saudita nella repressione di un Islam politico, che, nel frattempo, paradosso dei paradossi per una galassia sunnita, si era spostato in orbita sciita, attratto dal successo della rivoluzione khomeinista del 1979. Pochi ricordano che pochi mesi dopo la cacciata dello Scià, ci sarà l’occupazione della Mecca repressa dal governo saudita grazie all’intervento francese. Ancora una volta gli occidentali.
Chi occupò per due settimane la Grande Moschea? L’Ikhwan. Una rivolta dello stesso stampo, guidata dal movimento della Sahwa, si sviluppò in occasione dell’invasione irachena del Kuwait, opponendosi alla cessione agli Stati Uniti del territorio saudita per le loro basi militari. Punto di spaccatura fra queste due versioni del salafismo oltre il rapporto con l’occidente? La relazione con Israele, di volta in volta presentato dall’islam tradizionalista come braccio armato o mente dell’imperialismo occidentale. Momento simbolo di questo confronto, il dibattito televisivo di metà degli anni Novanta fra due grandi imam: l’esponente della Fratellanza musulmana Yussuf Al Qaradawi, egiziano, e il Gran Muftì saudita Bin Baz.
Il primo, assunto come nume spirituale da Hamas dopo la morte dello Sceicco Yassin, fondatore del movimento ucciso da Israele nel 2004, assolutamente ostile ad ogni forma di legittimazione della presenza sionista in terra di islam. Il secondo favorevole ad accordi con lo Stato ebraico in nome del principio coranico di rispondere alla mano tesa dell’avversario. Il dibattito fu seguito da centinaia di milioni di persone.
Era, in fondo, la rappresentazione plastica dello scenario attuale: Iran e movimenti fondamentalisti, sia sciiti che sunniti, da una parte; governi nazionalisti arabi, monarchie del Golfo e Arabia Saudita dall’altra. Alle ragioni teologiche, nel tempo, si sono sommate quelle pragmatico-politiche, quando, dopo la fine della guerra fredda, molti governi arabi hanno cominciato a rendersi conto delle opportunità di sviluppare partnership con Israele, con cui hanno iniziato collaborazioni in ogni settore: sanitario, agroalimentare, militare, energetico, degli aerotrasporti. Lo scenario di questi giorni ha tanto l’aria di una resa dei conti finale, al termine di un percorso secolare di ridefinizione dell’islam tutto.
Lo stallo di Israele
Purtroppo per Israele, però, il momento propizio arriva nel suo momento di maggiore debolezza interna. Per molti versi intrappolato negli stessi problemi islamici di elaborazione di una propria modernità capace di conciliare sfera politica e religiosa, il paese appare in stallo politico.
Condizione che finora sembrava impedirgli di poter realizzare una strategia per il dopo guerra perpetrando all’infinito bombardamenti sulla Striscia di Gaza, di cui, dopo la necessaria risposta militare iniziale, non si è più compreso l’obiettivo.
Anche qui, le divisioni di oggi hanno radici ben profonde. Forse nello stesso XVIII secolo da cui siamo partiti per ricostruire la frattura islamica. È il momento in cui l’ebraismo impatta con la modernità, frantumandosi in fazioni poi introiettate dallo Stato ebraico nel 1948. Perché, se è vero che una parte dell’ebraismo, la diaspora euro-occidentale, ha non solo recepito, ma elaborato la modernità, ce n’è un’altra che l’ha subita. Parliamo dell’ebraismo russo, bielorusso, ucraino, lituano, in parte ungherese e polacco. Così, la haskalà, il cosiddetto illuminismo ebraico nato simbolicamente a Könisberg, si è scontrata con il hassidismo diffusosi in oriente a partire dalla Podolia.
A questo, a sua volta, si contrapposero i mitnagdim («oppositori») delle yeshivòt lituane, che seguivano l’insegnamento di quell’indiscussa autorità che fu il Gaon di Vilna. Furono scontri feroci, giunti anche a reciproche delazioni consegnate alle autorità giudiziarie locali. Trattasi di grandi insiemi culturali, che si sono divisi poi in mille rivoli, spesso l’un contro l’altro armati. Difficile, fino a poco tempo fa, immaginare un matrimonio fra persone solo appartenenti a casate hassidiche differenti.
Figuriamoci con movimenti non hassidici. Il sionismo complicò ulteriormente le cose, proponendosi come movimento laico legato agli ideali di emancipazione europei. Come naturale, subì l’ostracismo del mondo religioso, tranne di una parte, quella legata a Rav Avraham Itzhaq HaCohen Kook, Rabbino Capo della Palestina mandataria. Mente enciclopedica e filosofica, Rav Kook svilupperà una teoria redentiva in linea con i grandi modelli di filosofia della storia, in particolare con Schelling.
In questa prospettiva i chalutzim, i «pionieri» laicissimi delle prime spedizioni sioniste, divenivano strumenti inconsapevoli nelle mani della Shekinà, la presenza divina che noi tradurremmo con Provvidenza. Ovvio che l’obiettivo finale del servizio storico offerto dal sionismo fosse il suo superamento, fino al punto finale di un Grande Israele con il ripristino del Sinedrio. Anche se non sembra, a suo modo, era una mano tesa al mondo laico, un possibile inizio per trovare quel punto di conciliazione mancato dall’islam. Non fu accettata. È nota la battuta di molti anni dopo di Amos Oz, anima laica dell’Israele moderno: io non mi sento uno strumento nelle mani di nessuno.
L’insegnamento di Rav Kook, però, ruppe anche il fronte religioso, come detto generalmente ostile alla fondazione dello Stato su basi laiche e moderne. Questa variegatissima area a noi è oggi nota con il termine charedim, «timorati». Si tratta di anti-sionisti (seppur ci sono state evoluzioni in questo senso) che abitano in Israele con lo stesso spirito con cui abiterebbero in qualunque luogo del mondo: con l’obiettivo di trarre vantaggi per la propria comunità. Anche in questo caso, abbiamo una scena simbolo: il viaggio da Rav Kook, a Gerusalemme, del grande Rabbi Avraham Mordechai Alter di Gur, guida di Agudat Israel (Unione di Israele). Il disaccordo fu totale.
Oggi tutte queste anime: laica, charedì e sionista religiosa sono insieme al governo con prospettive inconciliabili su punti fondamentali come conformazione politica e confini dello Stato. Solo un ego smisurato come quello di Netanyahu, poteva pensare di tenere assieme queste contraddizioni. E forse non è un caso che, seppur di guerra, si intraveda una strategia nel momento in cui Gideon Sa’ar entri nel governo, rendendo Bibi meno ricattabile dalla componente religiosa. Sa’ar non è una colomba, ma almeno non è condizionato da un quadro fanatico-religioso, che erode a priori qualunque possibilità di trattativa.
Tantissime le incognite in questo nuovo assetto mediorientale che dovrebbe costruirsi sull’asse ebraico-sunnita. Uno scenario, inutile negarlo, nefasto per i palestinesi. Ci sarebbe da capire il destino di Assad, di un Libano orfano di Hezbollah. Soprattutto, però, sarebbe un colpo atroce per la Russia di Putin, che infatti si dice sia disposto a offrire la difesa anti missile all’Iran, col rischio che Israele dia il giorno dopo l’Iron Dome agli ucraini. Insomma, a un anno dal 7 ottobre le lancette del famoso orologio che conta i minuti che ci separano dalla catastrofe nucleare sembrano spostate un po’ in avanti.
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