- Secondo lo storico tedesco bisogna fare tutto il possibile per sostenere la resistenza ucraina, parlare di trattative è pericoloso «perché questo modo di condurre la discussione rappresenta un pericolo per il morale stesso degli Ucraini».
- Nella Ostpolitik vanno distinte diverse fasi, non tutte hanno lasciato un segno positivo nei paesi dell’Europa centro-orientale.
- Il cancellierato di Angela Merkel resterà segnato dalla decisione «incomprensibile» di sostenere ancora dopo il 2014 il Nord Stream 2. Per il futuro resta indispensabile l’etica della responsabilità di Max Weber.
Heinrich August Winkler, ottantatré anni, è uno degli storici tedeschi più apprezzati e famosi. In italiano sono usciti il suo testo più celebre, Der lange Weg nach Westen, con il titolo Grande storia della Germania, e La Repubblica di Weimar. 1918-1933, entrambi per Donzelli. Winkler è impegnato pubblicamente nel massimo sostegno alla resistenza e alla difesa ucraina. Di questo e altro abbiamo parlato con lui a Berlino.
Professore, come giudica la Zeitenwende che il cancelliere Scholz ha annunciato lo scorso febbraio dopo l’aggressione russa all’Ucraina?
In realtà la svolta, la Zeitenwende, è iniziata nel 2014, con l’annessione della Crimea e la guerra ibrida della Russia nel Donbass. Ma il 24 febbraio segna certamente una rottura radicale con l’ordine successivo alla fine della Guerra fredda e l’impegno nella Carta di Parigi del 1990 a rispettare la sovranità, l’integrità territoriale e la libera scelta delle alleanze. In Germania, con questa espressione il cancelliere ha voluto imprimere una correzione drastica della politica tedesca, in particolare rispetto alle questioni militari e alla Russia, con la quale sono stati commessi diversi errori di valutazione, da ultimo quello di considerare il Nord Stream 2 come un progetto puramente economico. Cosa che non è mai stato.
Lei ha criticato spesso la Spd. Cosa c’è che non va nella Ostpolitik dei socialdemocratici?
Io stesso sono membro della Spd, il più antico partito di Germania e credo che parlando di Ostpolitik bisogna distinguere. Quella di Willy Brandt, formulata già all’inizio degli anni Sessanta dal suo consigliere Egon Bahr, aveva due componenti fondamentali. Da un lato, il legame con l’occidente e, quindi, la politica tedesca faceva parte di una generale politica di distensione. In secondo luogo, l’Unione sovietica di allora era interessata, anche in ragione della crescente tensione con la Cina, a mantenere inalterata la situazione in Europa. Per così dire, l’Urss era una potenza conservatrice, cosa che è già una prima, enorme, differenza con la Russia di oggi, che si presenta, invece, come una potenza revisionista: chi oggi parla di Ostpolitik non può non tenerne conto.
Abbiamo poi una seconda fase, negli anni Ottanta, quando la Spd è in Germania all’opposizione, e la parola d’ordine è diventata Stability first. Si trattava di una interpretazione nazionale, tedesca, della Ostpolitik, rappresentata proprio da Bahr, il quale affermava che l’Unione sovietica aveva il diritto di intervenire qualora la Polonia avesse messo in discussione la sua appartenenza al Patto di Varsavia. Questa fase, che ha messo in dubbio il motto “cambiamento tramite l’avvicinamento”, ha lasciato tracce profonde nei paesi dell’Europa orientale e in Germania lo dimentichiamo troppo spesso. Soprattutto in Polonia, dove la memoria va sempre alla spartizione di cui fu vittima nell’Ottocento per l’intesa di Prussia, Austria e Russia o all’accordo tra Hitler e Stalin del 1939.
Ecco perché successivamente Schröder ha dimostrato di non aver capito nulla dalla storia ma di presentarsi in linea con una tendenza che metteva sopra ogni cosa la collaborazione con la Russia, anche sulla testa dei nostri vicini orientali. Se a questo si aggiunge il ringraziamento per Gorbaciov per la riunificazione, allora si ottiene una politica dei socialdemocratici quantomeno ingenua. Che, tuttavia, non sono soli: parte della Cdu ha condiviso questa impostazione come pure una parte rilevante dell’industria tedesca.
Il suo collega Jürgen Habermas, però, sostiene che con Putin bisogna trattare, anche se è un criminale di guerra. Altrimenti, come si chiude questa guerra?
Ho discusso ripetutamente con Habermas e tante volte abbiamo avuto posizioni diverse, anche sulla riunificazione del 1990. Cominciamo da un punto: possono esserci trattative per la pace o almeno una tregua nel momento in cui la Russia sospende la sua guerra di aggressione. Fino ad allora, pur consapevole che contatti tra Scholz, gli Stati Uniti, i leader europei, e Mosca ci sono, non riesco a essere d’accordo con Habermas e altri intellettuali, perché questo modo di condurre la discussione rappresenta un pericolo per il morale stesso degli ucraini, che combattono una guerra non solo per difendere la loro terra ma tutto l’occidente. Se Putin dovesse convincersi che l’aggressione all’Ucraina paga, allora tutta Europa potrebbe essere in pericolo.
Di recente anche Angela Merkel ha detto di non scusarsi per la sua politica. Crede che la guerra russa cambierà la valutazione sul suo lungo cancellierato?
A differenza di Schröder, Angela Merkel non si è mai fatta troppe illusioni su Putin, non ha mai pensato che fosse un democratico. Credo che fosse nel giusto nel 2008 quando, insieme a Hollande, si scontrò con Bush, sconsigliato persino dai suoi stessi collaboratori, sull’ingresso di Ucraina e Georgia nell’Alleanza atlantica. Era noto a molti, anche a Bush padre e a Clinton, che per la Russia l’Ucraina aveva un valore particolare, non foss’altro per la storia delle due nazioni. Se il processo di adesione alla Nato fosse stato accelerato, la Russia avrebbe di certo reagito, anche militarmente. Qui la cancelliera si è dimostrata saggia, al contrario di un presidente americano al quale il mondo deve anche le fatali conseguenze della guerra contraria al diritto internazionale in Iraq.
Tuttavia, per me resta incomprensibile il suo sostegno al Nord Stream 2, anche dopo il 2014, l’illegittima annessione russa della Crimea e gli avvertimenti che arrivavano da più parti, ad esempio dai paesi baltici. Questo è stato un errore. Ma non sono da sottovalutare altre due questioni. Angela Merkel ha spesso deciso d’istinto, con successo, passando da crisi a crisi, senza mai una strategia complessiva. Lo si è visto nella scelta del 2015, con la crisi dei rifugiati. Quella scelta solitaria tedesca ha avuto effetti sui nostri vicini: la vittoria elettorale in Polonia del PiS nello stesso anno è figlia anche di quella decisione. In secondo luogo, sotto i suoi governi il settore militare è stato enormemente trascurato: come ha detto uno dei responsabili della Bundeswehr, l’esercito era letteralmente al verde. A questo Olaf Scholz deve rimediare e credo abbia iniziato a farlo con il suo discorso dello scorso febbraio.
A questo proposito non c’è il rischio che una Germania che diventa anche potenza militare riapra la “questione tedesca” in Europa? Sono in tanti nel paese a reclamare di aumentare ancor più le spese militari e di un ruolo di guida, di comando per la Germania.
Per quello che riguarda la guida, è sempre meglio parlarne il meno possibile: la guida va esercitata. Ed è giusto che vada fatto in accordo con gli alleati, inclusi gli Stati Uniti: sulle questioni militari un cammino solitario dei tedeschi sarebbe un errore fatale, di questo il cancelliere federale è consapevole.
Ecco perché quello che occorre fare è recuperare il ritardo degli ultimi anni, soprattutto nelle infrastrutture civili e militari, ma questa politica non produce una supremazia tedesca sul resto del continente. Anzi: i cento miliardi che il governo ha destinato all’esercito servono a malapena a raggiungere gli obiettivi che la stessa Nato richiede dalla Germania. È perciò una questione che non si pone nell’immediato: quando arriverà il momento di spendere più delle nostre capacità di difesa andrà fatto nell’interesse comune, a partire dalle esigenze di sicurezza dei paesi baltici.
Proprio Scholz ha tenuto a fine agosto un importante discorso a Praga: cosa ne pensa e può essere l’inizio di uno spostamento del baricentro della politica europea tedesca?
È un discorso che contiene alcuni spunti interessanti, ad esempio quello sulla difesa comune europea. Ma non credo sia corretto parlare di uno spostamento della politica tedesca. Il cancelliere ha ragione quando prende in considerazione gli interessi dei cittadini dell’Europa centro orientale, anche per riparare gli errori fatti fino a oggi: non possiamo negare il “rapporto particolare” dei tedeschi verso la Russia, e le preoccupazioni che ha lasciato sui nostri vicini orientali di cui abbiamo parlato poc’anzi.
Ci sono, però, anche diverse contraddizioni in questo discorso di Scholz. Scholz promette un allargamento dell’Unione, ai Balcani occidentali ma anche a Ucraina e Georgia. Il presupposto è la modernizzazione del processo decisionale, che non si realizza senza cambiare i Trattati europei, cosa al momento impossibile per il veto delle “democrazie illiberali” come pure per l’avanzata delle destre nel determinare la politica di singoli stati, penso alla Svezia e all’Italia.
Ecco perché credo sia necessario che, soprattutto sulle questioni di politica estera e di difesa, la cooperazione aumenti tra quei paesi che hanno un’opinione comune su questioni dirimenti come lo stato di diritto, la divisione dei poteri e l’indipendenza della giustizia. In una fase come quella attuale, con la presenza di potenze come Cina e Russia, dobbiamo pensare sempre a come tenere in piedi una cooperazione con le altre democrazie liberali europee, come il Regno unito, e quelle nordatlantiche, come gli Stati Uniti e il Canada.
Scholz ha parlato anche di rafforzare il ruolo del parlamento europeo.
La sua idea è quella di democratizzare l’Ue rafforzando il parlamento europeo, avvicinandosi al principio “una persona un voto”. Tuttavia, se valesse questo principio, allora il parlamento europeo dovrebbe essere costituito da circa 6mila parlamentari, un’assemblea ingestibile. Inoltre, con il sistema attuale sono favoriti i piccoli stati, che, altrimenti, sarebbero rappresentati poco o per niente. Il diverso sistema di voto ha anche il suo prezzo: il parlamento europeo non può avere la stessa legittimità democratica e gli stessi diritti di un parlamento nazionale eletto tramite un voto generale e uguale. Per questa ragione bisogna convincersi che l’Unione europea non sarà democratizzata tramite un rafforzamento del suo parlamento ma da un maggiore coinvolgimento e coordinamento dei parlamenti nazionali, che devono intervenire nel controllo dell’operato della Commissione.
L’Unione europea resta una comunità di stati, che sono legittimati democraticamente. In democrazia non c’è alcuna sovranità al di là della sovranità del popolo e quando Macron parla di sovranità europea intende qualcosa di completamente diverso dal passaggio da una comunità di stati a una vera e propria federazione, della quale si legge nel patto di coalizione di governo firmato nell’autunno 2021 da Spd, Verdi e Liberali.
Teniamo conto che i tedeschi con la Seconda guerra mondiale hanno distrutto il loro stato nazionale, quello costruito da Bismarck nel 1871. Ma questa non è una buona ragione per credere che l’idea dello stato nazionale sia tramontata per tutti. Ad averlo creduto sono molti intellettuali e politici tedeschi del dopoguerra, ma in Danimarca, in Francia, in Polonia la cosa è molto diversa. Quando Macron parla di sovranità europea, non pensa a ulteriori poteri attribuiti all’Unione o a un’europeizzazione del seggio permanente al Consiglio di sicurezza dell’Onu, tantomeno delle armi nucleari, la Force de Frappe. Pensa, piuttosto, a una certa autonomia nei confronti degli Stati Uniti e a una comunitarizzazione del debito, cosa che la Germania non può sostenere, anche perché non condivisa dalla maggior parte dei paesi del nord Europa. Queste diverse opinioni nei singoli stati non andrebbero sottovalutate.
Venendo alla Germania il quadro è certamente più florido di altri paesi europei, ma molti cittadini avvertono tante difficoltà: inflazione, costo degli affitti, bassi salari. C’è il rischio che del malcontento approfittino le cd. nuove destre a partire da AfD?
I rapporti ci dicono che cresce l’insoddisfazione per la democrazia in tutti i paesi e anche in Germania, soprattutto nella parte orientale del paese, anche per ragioni storiche. Dopo la Seconda guerra mondiale, nella parte occidentale, al tempo dell’occupazione (1945-1949) è stato possibile aprirsi alla cultura politica occidentale. Per certi aspetti si può dire che i tedeschi occidentali sono stati fortunati con i loro occupanti “democratici”. Lo stesso non può dirsi sia avvenuto a est: la cultura politica degli occupanti sovietici era tutt’altra che aperta. Dopo la riunificazione questa differenza si è palesata, anche per ragioni economiche, sebbene l’est non sia mai stato quello che spesso viene definito come un “mezzogiorno” tedesco. A cavalcare questo risentimento c’è stata prima la Pds, il Partito del socialismo democratico [erede della SED, poi co-fondatore della Linke, ndr], poi AfD, sfruttando anche questo sentimento di ostilità ad alcuni valori occidentali.
Tuttavia, vorrei anche dire che non siamo alle condizioni di Weimar, la democrazia è forte e non è in pericolo: ad esempio in Turingia c’è un presidente della Linke, un rappresentante dell’ala pragmatica di questo partito, disposto anche a collaborare con la Cdu. Nella Germania riunificata c’è, a differenza della Repubblica di Weimar, un patriottismo della Costituzione che si trova oggi a dover affrontare una prova. È una tesi plausibile che il miracolo economico abbia rappresentato il capitale di riserva della democrazia tedesca. Oggi, invece, la democrazia deve convincere di essere capace di dare buona prova di sé in una recessione.
Il suo libro più famoso è “Il lungo cammino verso occidente”. Dopo la riunificazione il cammino sembrava concluso. Qual è il ruolo della Germania oggi?
Nel 1989-1990 è stata risolta la questione tedesca, uno dei grandi problemi europei del Diciannovesimo e del Ventesimo secolo, sotto tre aspetti. Il primo: coniugare unità dello stato e libertà. Secondo: viene risolta la questione di dove arrivi la Germania, dove passano i suoi confini, con la linea dei fiumi Oder e Neiße, risolvendo così in pace anche la secolare questione polacca. Terzo: la Germania non è più un problema per la sicurezza europea, perché è legata alle alleanze internazionali e all’Unione europea. Una parte del cammino è certamente conclusa, ma c’è ancora strada.
Abbiamo già citato le differenze tra est e ovest del paese ma anche questa idea di una relazione speciale con la Russia mostra un certo riemergere di valori antioccidentali. Imparare dalla storia è un processo che non si interrompe mai: le colpa della Germania tra il 1933 e il 1945, i crimini contro l’umanità, l’Olocausto non possono mai essere relativizzati, ma non possono nemmeno essere strumentalizzati per supporre l’esistenza di una morale speciale di una Germania che ha rotto con il suo passato nazionalista; l’idea, di cui parlavamo prima, «noi abbiamo distrutto il nostro stato nazionale, ora devono farlo anche gli altri». Un’idea che assegna ai tedeschi un ruolo di predestinati e che è completamente astorica, di cui soprattutto la sinistra tedesca è responsabile.
Bisogna rinunciare a queste dottrine post-nazionali, del resto già confutate. Dal passato dobbiamo imparare ad agire sempre in modo responsabile nel senso dell’etica della responsabilità di Max Weber, pensare sempre alle conseguenze di ciò che si pensa e di quello che si fa. Ma questo è più facile a dirsi che a farsi.
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