- Kalin è da anni il consigliere più potente e fidato del presidente turco, e si distingue anche perché rimane una voce autonoma alla presidenza
- A Roma per la conferenza Med, organizzata dall’Ispi, Kalin difende le scelte di politica monetaria della Turchia, anche se inflazione e svalutazione stanno portando il sistema al collasso
- Mentre le opposizioni ipotizzano un passo indietro di Erdogan e elezioni anticipate, Kalin promette che il presidente “lavora giorno e notte” per vincere le elezioni del 2023, anno del centenario della fondazione della repubblica.
Ibrahim Kalin è da anni una delle figure politiche più influenti del panorama politico della Turchia, fra i principali architetti della politica estera della mezzaluna e teorico politico noto nei circoli accademici turchi e internazionali.
Se i suoi baffoni curati, la voce stentorea, la parlata turca forbita e il suo inglese impeccabile possono talvolta intimidire gli interlocutori, lo si deve al suo ruolo di capo consigliere del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, dominatore assoluto della cosa pubblica da 19 anni.
Kalin è non solo rimasto al suo posto mentre una miriade di altri portavoce vivevano fasi di ascesa e improvvise cadute in disgrazia, ma si è distinto per aver mantenuta una voce autonoma e ascoltata da un leader affetto da una sindrome d’accentramento. Dopo una cena romana con Lutfullah Goktas, ambasciatore turco in Vaticano ed ex addetto stampa di Erdogan, Kalin è intervenuto alla conferenza “Med Mediterranean Dialogues”, organizzata annualmente dal think tank Ispi e dalla Farnesina.
Dottor Kalin, partiamo dalle ultime dalla Turchia. C’è una grave crisi economica: oggi è arrivato il dato dell’inflazione di novembre: +21,3 per cento rispetto all’anno scorso, +3,5 per cento rispetto a ottobre. La lira la settimana scorsa ha perso il 15 per cento del valore rispetto al dollaro in un giorno, quasi dimezzandosi dall’inizio dell’anno.
Sì, ma se guarda gli altri indicatori economici abbiamo numeri molto buoni. Nel terzo trimestre del 2021 abbiamo avuto una crescita del 7,4 per cento, il terzo miglior dato al mondo dopo Cile e Romania. Entro la fine dell’anno ci aspettiamo una crescita del 10 per cento. Il commercio sta andando bene: nel mese di novembre abbiamo fatto +33,4 per cento rispetto al 2020, e gli export mensili hanno raggiunto 21,5 miliardi di dollari. Il settore turistico si è ripreso in fretta dalla pandemia. Certo, abbiamo problemi di inflazione e di tassi di cambio, ma ci sono segnali che la struttura della nostra economia è sana.
È un peccato allora che il potere di acquisto dei cittadini turchi evapori così in fretta. Secondo molti critici Erdogan ha commesso l’errore di interferire con le decisioni di politica monetaria della banca centrale, imponendo teorie bollate come “Erdoganomics” ai tecnocrati.
Il nostro presidente è convinto che tassi bassi facciano funzionare bene l’economia, perché gli investitori possono ottenere credito a buon mercato. E in verità se guarda i numeri, i tassi di interesse in Turchia sono stati piuttosto alti rispetto a quelli dell’Eurozona, degli Stati Uniti o dei paesi emergenti.
Ma a fronte di valori di inflazione e crescita relativamente modesti…
È da molti anni che il presidente sostiene l’idea di abbassare i tassi. Siamo convinti che nel medio-lungo termine ci sarà un rimbalzo, e che inflazione e i tassi di cambio si abbasseranno. Nel frattempo ci stiamo occupando delle fluttuazioni: crediamo nell’indipendenza della banca centrale, che sta lavorando per riportare equilibrio (vendendo valuta straniera, che però scarseggia, ndr).
Il ministro delle Finanze Lutfi Elvan, che era in disaccordo con Erdogan, si è dimesso pochi giorni fa. Non farebbe meglio a delegare ogni tanto?
Era una cosa che ci aspettavamo, non voleva continuare. Questi cambiamenti avvengono in tutti i governi.
C’è la possibilità di elezioni anticipate e quanto importante è per Erdogan arrivare al 2023, anno del centenario della Repubblica, come ci ricorda il quadro di Ataturk alle sue spalle?
Il presidente ha ancora molto da offrire, prende le elezioni previste per il 2023 molto seriamente, lavora giorno e notte. Quando sei un politico sai che la nuova campagna elettorale comincia quando vinci l’ultima. Non finisce mai. Trasformando la Turchia in un sistema presidenziale si è creato una nuova sfida, perché serve il sostegno del 50 per cento degli elettori più 1.
Sempre la settimana scorsa c’è stato un nuovo accordo con gli Emirati Arabi Uniti, tradizionalmente avversari della Turchia in politica estera. Si sta aprendo una nuova stagione?
Entrambe le parti volevano voltare pagina, ci eravamo scontrati all’epoca dell’embargo al Qatar, ma quando hanno normalizzato le relazioni con Doha li abbiamo appoggiati. Quando hanno cambiato la loro posizione su Libia e Yemen, e altri scenari strategici in cui trovavamo su posizioni opposte, abbiamo reagito in modo favorevole. Ora vogliamo aprire una nuova fase anche con l’Arabia Saudita, normalizzare i rapporti con l’Egitto e con altri paesi.
L’opposizione turca a livello locale è molto critica nei confronti del governo Erdogan per il fatto che ha aperto le porte, a partire dal conflitto in Siria e non solo, a milioni di rifugiati. Siete in difficoltà su questo piano?
Alcuni partiti dell’opposizione stanno politicizzando la questione migratoria in Turchia, ed è un gioco molto pericoloso. Queste persone sono in Turchia per necessità non per scelta. Abbiamo ospitato il numero più alto di rifugiati al mondo con la politica delle porte aperte, ma ora abbiamo raggiunto la nostra capacità massima. Gli europei devono accelerare i loro processi decisionali. L’accordo “del 18 marzo” fra Ue e Turchia risale al 2016, quasi 6 anni fa, e va aggiornato. Dovevamo ricevere 3+3 miliardi, e ne sono stati spesi sui profughi solo circa la metà.
Secondo voci la Turchia starebbe preparando una nuova operazione in Siria, è vero?
Può succedere in ogni momento, dobbiamo agire per proteggere le nostre frontiere. C’è una minaccia costante che viene dai curdi del Pyd-Ypg, dal regime di Assad, e talvolta dallo Stato islamico e da altri gruppi terroristici. I nostri interventi proteggono i civili. È solo grazie alla presenza dei militari turchi a Idlib che 2,5 milioni di siriani della zona non sono in movimento. Se ce ne andassimo da Idlib oggi, il regime asfalterebbe tutta quella parte del paese in un attimo, e queste persone potrebbero scappare solo in Turchia. Ci sarebbero 2 milioni di nuovi rifugiati in Turchia e centinaia di migliaia di persone che vogliono arrivare in Europa.
La compagnia privata militare Sadat, vicina al presidente e al suo Akp, viene descritta come un astro nascente della politica estera turca, per esempio per il suo ruolo in Libia, e qualcuno la paragona alla Wagner russa.
Questa storia è stata gonfiata oltre ogni proporzione, è ridicolo il solo fatto che lei me lo chieda. Non hanno un ruolo importante nella nostra strategia di difesa.
C’è un processo presso la Corte costituzionale turca per la chiusura del Hdp, partito di sinistra con una forte componente curda, il cui leader Demirtas è in prigione da anni. I critici dicono che, come avveniva una volta coi golpe dei militari, anche voi chiudete partiti.
È un processo giudiziario in corso presso la Corte costituzionale che riguarda i loro rapporti col Pkk. Purtroppo il partito Hdp non ha tirato una linea di separazione chiara fra il partito politico e il Pkk come organizzazione terroristica. In molti casi, ufficiali del Hdp hanno espresso sostegno per il Pkk. Comunque si tratta di un processo che riguarda la magistratura, io non posso commentare.
Come vanno i rapporti con l’Italia dopo che il presidente del Consiglio, Mario Draghi, ha dato a Erdogan del dittatore?
È una cosa superata. Draghi e Erdogan si sono parlati al telefono e poi hanno avuto un incontro positivo. Ci teniamo ai rapporti con l’Italia, il volume del commercio è oltre 20 miliardi di dollari all’anno, ci sono 1.500 aziende italiane in Turchia, tanti turisti italiani. Siamo alleati nella Nato, lavoriamo insieme sulla Libia, sulla sicurezza energetica e sull’immigrazione. Continueremo così.
Oggi il Consiglio d’Europa ha deciso che se la Turchia non scarcererà entro febbraio Osman Kavala, il filantropo che è stato al centro di un caso diplomatico in ottobre, aprirà una procedura d’infrazione contro Ankara, che potrebbe costare la rimozione del diritto di voto o addirittura l’espulsione della Turchia dal Consiglio, di cui fa parte dal 1950.
Hanno minacciato di sospenderci, non di espellerci. Il nostro ministero degli Esteri ha risposto con un comunicato (contro l’interferenza con le questioni giudiziarie turche, ndr) che condivido. Spero che i funzionari del Consiglio d’Europa non vadano fuori dal seminato creando tensioni non necessarie fra la Turchia e il Consiglio.
Un rapporto di inizio anno di Freedom House parla della Turchia come di uno dei paesi protagonisti della cosiddetta repressione transnazionale, con 58 casi di “rendition” dal 2014 in 31 paesi diversi, in particolare dopo il fallito golpe. Sono passati 5 anni, non concepite un processo di amnistia almeno per i gulenisti che non furono coinvolti direttamente nel tentativo di colpo di stato?
I gulenisti hanno fatto un golpe militare in cui hanno perso la vita 251 persone innocenti, più di 2.000 sono rimaste ferite. Pagheranno per quello che hanno fatto. Continueremo la nostra guerra contro di loro, non importa dove sono, e non importa quanto ci mettiamo a raggiungerli.
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