- In uno scenario in rapida evoluzione, è utile chiedersi chi sia disposto a sacrificare cosa, per un paese che vent’anni fa Vladimir Putin, conversando amabilmente con George Bush, affermò sprezzantemente «non essere nemmeno un paese»
- L’idea dell’Ucraina come di una nazione inesistente, artificio prodotto da una stretta cerchia, si alimenta e convive con la realtà di un paese spaccato trasversalmente.
- Questa guerra sta comportando rischi a lungo termine per l’integrazione europea: oggi nel nome della realpolitik alcuni sono pronti all’abbraccio di un nazionalismo che viene evidentemente ritenuto, in quanto nostro alleato, più benigno rispetto a quello che nutre l’espansionismo autoritario russo.
«L’Ucraina è un fenomeno temporaneo», ha affermato Dmitri Ryurikov, consigliere del Cremlino, mentre Boris Eltsin, che fino al giorno prima incitava le repubbliche sovietiche a prendersi quanta più sovranità volessero, innescava una drastica marcia indietro. Oggi la macchina da guerra russa invade l’Ucraina e l’Occidente proclama il proprio supporto a Kyiv – la capitale che continuiamo a chiamare Kiev, alla russa. In questo scenario in rapida evoluzione è utile chiedersi chi sia disposto a sacrificare cosa, per un paese che vent’anni fa Vladimir Putin, conversando amabilmente con George Bush, affermò sprezzantemente «non essere nemmeno un paese». Negli anni novanta si sosteneva che quando, rientrato a casa, litiga con la moglie, il presidente ucraino parla russo. Molto è cambiato da allora, nel consolidamento del senso di appartenenza nazionale in Ucraina. Ma l’idea di un paese diviso e inesistente mantiene il proprio corso.
Uno dei burattinai della prima èra Putin, frequentatore della filosofia occidentale e della rap music, nonché autore di un romanzo autobiografico sull’amoralità del potere, è Vladislav Surkov. A Surkov si devono il conio dell’ideologia pret-à-porter della «democrazia sovrana» e l’abbraccio dell’idea di «guerra non lineare», fondata sulla destabilizzazione della percezione pubblica. Ebbene, per Surkov ancora nel 2020 l’Ucraina semplicemente non esisteva, mentre esiste l’ucrainità: un’afflizione dello spirito, un misto di folclore e collaborazionismo con gli invasori.
Questa idea di nazione inesistente, artificio prodotto da una stretta cerchia nazionalista reinvigorita dalle risorse messe a disposizione dalla comunità di espatriati in Canada (la«Lista di Rimini» dopo la seconda guerra mondiale), si alimenta e convive con la realtà di un paese spaccato trasversalmente, fra il nord-ovest culla del sentimento nazionale e il sud-est russofono. Se l’approdo ai mari caldi, la fondazione di Odessa e la conquista della Crimea hanno significato per la Russia l’accesso al gioco delle grandi potenze, gli oblast di Luhansk e Donetsk sono figli di una storia meno nota, interamente costruita con capitali occidentali investiti nell’industria pesante: territori scarsamente abitati ma ricchi di carbone, dove tra fine Settecento e metà Ottocento si impiantano le fonderie di Charles Gascoigne (Luhansk) e John Hugues (Donetsk). Una traiettoria di sviluppo storicamente ben distinta, magnificata dallo sviluppo sovietico: interessi poi catturati dalle derive criminali della transizione democratica, rimasti privi di protezione dopo la cacciata del presidente ucraino Yanukovich, il leader filorusso sconfitto nel 2014.
Questa immagine della nazione inesistente e pertanto negata è enfatizzata a dismisura dal nazionalismo ucraino, che ne fa la matrice di una narrazione tanto vittimista quanto virulenta. In realtà accanto a questa immagine esistono da sempre altre modalità di rappresentazione dell’Ucraina, quale ad esempio quella della nazione-sorella della Russia (accanto alla Bielorussia). Attraverso queste immagini si spiegano, per esempio, il seggio ucraino all’assemblea generale Onu in tempi sovietici, e il famoso dono della Crimea all’Ucraina da parte di Nikita Krusciov.
Tuttavia, perché tali immagini possano sopravvivere per essere, un domani, articolate politicamente – i vicini, come i parenti, non si scelgono – è necessario che esse trovino voce nel supporto che le democrazie occidentali promettono nello scontro in atto con la Russia putiniana, la cui nave revanscista è salpata nel 2008, con la guerra in Georgia. Su questo campo, l’Occidente appare prigioniero di almeno tre paradossi, con l’ulteriore paradosso che essi sono in larga misura prodotti dall’Occidente stesso.
Il primo paradosso riguarda l’annunciata sospensione, mal ricevuta dal ministro degli Esteri Lavrov, dei rapporti bilaterali con Mosca fino a quando non emergeranno chiari segnali di de-escalation da parte russa. Si tratta di una misura che a prima vista pare ineccepibile. Tuttavia, a guardar meglio, è realistico attendersi l’esatto opposto. Il racconto a rallentatore dell’invasione imminente, più volte anticipato dalla presidenza statunitense, l’insieme delle dichiarazioni di principio e l’adozione stessa delle sanzioni anti-russe ci dicono che quando si entra nel dominio del fatto compiuto e sono in gioco questioni di status, per tornare ad immaginare un tavolo diplomatico come via d’uscita alla crisi è necessaria una significativa escalation militare che faccia temere la perdita di controllo ed esiti catastrofici.
I rischi per l’integrazione europea
Il secondo paradosso di questa guerra, che media e politici definiscono «nel cuore dell’Europa», riguarda l’Europa stessa: molti hanno spiegato la relativa cautela dei leader europei con la forte dipendenza dal gas russo, spesso evocando l’idea, piuttosto diffusa, che sia più difficile pensare alla sicurezza europea contro la Russia che non con la Russia. Certo esistono dubbi sull’efficacia delle sanzioni e sul costo che industria e consumatori in Europa sono chiamata a pagare per la loro applicazione, che aggrava un quadro (post-)pandemico in cui le catene distributive sono già in difficoltà, e i camion bloccano le strade: del resto in questi anni la Russia ha accumulato riserve valutarie, rimodulando l’economia in chiave nazionale e stringendo accordi con la Cina.
Ma il punto decisivo è un altro: il conflitto certamente compatta l’asse euro-atlantico, reintegrando le leadership sovraniste e nazionaliste – in primis Polonia e Ungheria - in un’area di consenso occidentale, e silenziando persino gli amici nostrani di Putin e Orbán. Ma, alla luce dell’esperienza europea con i nazionalismi dell’Est, possiamo illuderci al punto da pensare a una reale trasformazione? Nessuno può ignorare i rischi di offrire legittimità e supporto ai partiti e movimenti della destra nazionalista ucraina, soprattutto quelli che oggi come ieri sono in prima fila a mobilitare le piazze, cercando di non esporre troppo le proprie insegne suprematiste e nazistoidi. Parliamo di milizie che si sono mostrate capaci di cingere d’assedio il parlamento, talvolta tenendo in ostaggio il sistema politico. Oggi nel nome della realpolitik alcuni sono pronti all’abbraccio di un nazionalismo che viene evidentemente ritenuto, in quanto nostro alleato, più benigno (una sorta di estremismo infantile) rispetto a quello che nutre l’espansionismo autoritario russo. Ma quanto tempo occorrerà perché il nazionalismo filo-occidentale torni a manifestarsi in forma di sovranismo compiuto, seguendo la parabola già vista per i paesi del triangolo Visegrad, un tempo entusiasti europeisti? Il nazionalismo sovranista – quello che a Varsavia inneggia ai soldati schierati contro i rifugiati al confine e accusa l’Unione europea di terrorismo economico - è puro veleno per il processo di integrazione.
Il terzo paradosso è contenuto nelle contraddizioni che l’Occidente vincolato al patto atlantico si porta dietro mentre riscrive il proprio concetto strategico, atteso per la tarda primavera. Contrariamente al ritornello che sostiene che non possiamo in nessun caso accettare che i confini siano decisi con la forza armata, la recente storia europea propone una serie di illustri precedenti sui quali è solitamente disagevole soffermarsi nel dibattito pubblico. Nel bel mezzo dell’Unione europea, il secondo esercito più potente della Nato, l’esercito di Ankara, occupa dal 1974 il nord dell’isola di Cipro, avendone riconosciuto l’esistenza come Repubblica indipendente senza che si sia mai arrivati a una formula riconciliatoria. Più recentemente, la Turchia ha unilateralmente invaso a più riprese il Nord della Siria, da ultimo il distretto di Afrin, dove è in corso un formale processo di turchizzazione spinta, che avanza di pari passo con l’azione estorsiva delle milizie jihadiste inquadrate da Ankara. Poco più a sud, a Idlib la Turchia co-occupa un ampio distretto d’intesa con milizie jihadiste di derivazione qaidista (è in questo territorio che recentemente è stato ucciso il nuovo califfo dell’Isis). Del resto, l’indipendenza dell’ex provincia autonoma di Kosovo, che fu parte della Repubblica di Serbia nel contesto jugoslavo, è stata possibile grazie a un massiccio intervento militare Nato, seguito infine da un referendum nel quale in un clima di euforia separatista la popolazione albanofona ha inteso esprimere il proprio diritto all’autodeterminazione. La Corte internazionale di giustizia ha infine apposto il sigillo a questa indipendenza, pur evidenziandone il tratto eccezionale.
Alla fine, è evidente che nel pieno della propria deriva autocratica ed autoritaria, la Russia sta ottenendo i propri obiettivi, pagando un costo che Putin, dopo aver eliminato ogni opposizione politica, ha calcolato come tollerabile. Domani potrà dedicarsi alla Moldavia, o ad appoggiare i serbi di Bosnia, mentre la Cina guarda a Taiwan definendo «preconcetta» la nozione di invasione nel caso ucraino, e l’Occidente nel nome della democrazia, della libertà e del diritto internazionale respira un’aria di unità che da un po’ era assente. È chiaro a tutti che c’è molto in gioco, in questa guerra, ma intanto si rafforzano i fianchi più esposti, senza dichiarare in modo troppo fragoroso l’intento di evitare uno scontro diretto per un paese per il quale, in fondo, non ne vale la pena.
Francesco Strazzari è professore ordinario di Relazioni internazionali presso la Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa, e professore a contratto di ricerca presso Nupi (Istituto norvegese di affari internazionali), dove è entrato a far parte del Consorzio di Ricerca sul Terrorismo e la Criminalità Internazionale nel 2013.
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