Quali sono “i nostri valori”? Sono conciliabili con quel che accade ai civili palestinesi? E se non lo sono, è la passività l’unica opzione praticabile?
Da una ventina d’anni in Italia “i nostri valori” è il refrain intonato da grandi partiti e grandi giornali ogni qualvolta se ne offra l’occasione. Quale siano questi valori resta imprecisato ma si dà per scontato che abbiano a che fare con la democrazia e in generale l’occidente. E poiché per “democrazia” intendiamo “stato di diritto liberale”, ne deriva che i diritti umani, che dello stato di diritto liberale sono un fondamento, siano parte costitutiva dell’identità occidentale e italiana.
Ma ora avviene qualcosa che porta il mondo a dubitare di questa geografia. L’unico stato in cui oggi i palestinesi possano riporre le loro ultime speranze è un paese non occidentale (anzi anti occidentale secondo commentatori italiani): il Sudafrica. Può riuscire Pretoria dove americani ed europei finora hanno fallito? Forse.
Il processo
La Corte di giustizia internazionale impiegherà tempo per decidere sull’accusa di genocidio mossa a Israele, ma è in suo potere ingiungere al governo Netanyahu di fermare l’offensiva.
In quel caso Israele dovrà tenerne conto: riconosce quel tribunale dell’Onu (e infatti ha accettato di difendersi) e se disobbedisse, o fingesse di obbedire, probabilmente comprometterebbe le possibilità di un’assoluzione.
Sia o no questo l’esito, l’iniziativa sudafricana ha smentito la credenza che vuole il diritto umanitario uno strumento neocoloniale dell’occidente. Con Pretoria si sono schierati una cinquantina di paesi, inclusi democrazie latino-americane, quali che fossero le loro motivazioni. A fianco di Israele, i tre pesi massimi occidentali: Usa, Germania, Gran Bretagna.
Silenti e neutrali i paesi che hanno ragioni per temere la giustizia umanitaria (Cina, India, Russia) ma anche gli europei, Italia inclusa. Secondo la stampa italiana l’atto d’accusa per genocidio è oltraggioso, disinvolto, ispirato da animosità ideologica, da antisemitismo. Secondo uno che parla con cognizione di causa, il giurista americano Kenneth Roth, è «imperfetto ma persuasivo», e potrebbe vincere, pronostica sul Guardian.
Figlio di ebrei europei scampati all’Olocausto emigrando negli Usa, Roth è stato a lungo direttore della più autorevole ong sui diritti umani, Human Rights Watch (HRW). Ha seguito il dibattimento a L’Aia ed è convinto che le 84 pagine presentate dai sudafricani contengano errori e forzature, ma non gravi quanto l’incapacità della difesa di spiegare perché Israele bombardi anche zone in cui convoglia la popolazione definendole «sicure», e perché saboti con pretesti i tentativi di porre rimedio alla crisi umanitaria nella Striscia.
Credibilità compromessa
Non condannando queste pratiche europei e americani rischiano di farsi male. Quantomeno potrebbero compromettere la loro credibilità e con quella il loro soft-power, ovvero la capacità di persuadere, convincere, di influire sulle classi dirigenti e sulle nuove generazioni. Bene o male il residuo prestigio degli occidentali deve molto all’idea che essi tengano in grande conto i diritti umani, pur tra mille ambiguità. Se questa apparisse un’illusione ne avrebbe vantaggio solo chi incita a detestare l’occidente e la democrazia.
Questo pericolo è maggiore presso le opinioni pubbliche arabe, già ora risentite e deluse, rivela un sondaggio dell’Arab Center for Research and Policy studies condotto in 16 paesi. La maggioranza degli interpellati (il 94 per cento) ritiene che la politica degli Usa sia stata cattiva o pessima; dal 75 al 79 per cento che sia stata negativa la politica di Francia, Gran Bretagna e Germania; il 92 per cento che la questione palestinese debba coinvolgere l’intero mondo arabo (erano il 76 per cento nel 2022); appena il 13 per cento che la pace con Israele a questo punto sia ancora possibile.
Una parte del campione probabilmente ha colto l’occasione per esprimere sentimenti altrimenti vietati, e cioè ostilità ai rispettivi regimi, che sono quasi quasi tutti in buone relazioni con gli occidentali e con lo stato ebraico (adesso il 68 per cento dei sauditi si oppone a normalizzare i rapporti con Israele: erano il 38 per cento nel 2022) e finora sono rimasti immobili e circospetti.
In segreto sono contenti che Hamas paghi, ma usano i loro media per assecondare la rabbia anti-israeliana e anti-occidentale, onde evitare di diventarne anch’essi bersaglio. Da qui, probabilmente, l’inquietante 64 per cento degli interpellati che definisce il pogrom di Hamas un legittimo atto di resistenza. Però il 27 per cento vi legge aspetti criticabili o odiosi, percentuale notevole se si considera che l’informazione araba ha omesso di raccontare le infamie inflitte agli inermi civili israeliani.
La nostra identità
I siti arabi indipendenti sono altrettanto severi verso europei e americani. Fino a ieri non li guardavano con ostilità, non fosse altro perché i governi occidentali non arrestano, torturano o sopprimono chiunque si mostri indocile. Nella guerra russo-ucraina, per esempio, quel segmento di opinione pubblica araba era schierato grossomodo dalla stessa parte della Nato (fa testo in proposito la tv al Jazeera). Ma dopo Gaza il giudizio è cambiato: gli occidentali sarebbero indifferenti alle sofferenze dei palestinesi e permeati da un razzismo anti-arabo che schermerebbero con la denuncia del razzismo anti-ebraico (quest’accusa è rivolta soprattutto alla Germania).
Siano pure sommarie, ingiuste, vittimistiche, queste percezioni dovrebbero comunque impensierire gli europei, e in particolare l’Italia, data la nostra tradizione diplomatica e la nostra vicinanza geografia con la sponda sud del Mediterraneo.
Piaccia o no a Gaza siamo in gioco anche noi. La nostra immagine nel mondo. O più esattamente la nostra identità. Quali sono “i nostri valori”? Sono conciliabili con quel che accade ai civili palestinesi? E se non lo sono, è la passività l’unica opzione praticabile? Non si può dire che scelte e non-scelte del governo Meloni siano peggiori di quelle di altri paesi europei.
Non mandiamo armi a Israele. Proponiamo di affidare la Striscia ad una possibile forza Onu con l’Italia dentro, soluzione che non piace a Banjamin Netanyahu. Abbiamo perfino segnalato il nostro disagio per la nomina ad ambasciatore d’Israele a Roma di un politico, Benny Kashriel, legato al movimento dei “coloni”. Ma anche in questo caso con nessun effetto pratico, se giudichiamo da un commento sarcastico apparso su Israel Hayom, il quotidiano devoto a Netanyahu: quando Kashriel si insedierà, si legge, potrà spiegare agli italiani che anch’essi hanno colonie, per esempio Campione d’Italia, e le detengono senza alcuna legittimazione storica. Qui la bizzarria del ragionamento è meno vistosa dell’arroganza con cui vengono respinte le perplessità italiane.
“Pulizia etnica”
Ma è un’arroganza comprensibile, data l’inconsistenza dell’Europa. Se si esclude il solitario Alto commissario della Ue per la politica estera, Josep Borrell, i governi europei fingono di non capire quale logica inesorabile guidi la destra israeliana. Che vuole tenersi i Territori occupati ma non è in grado di sottomettere i palestinesi. Dunque dovrà espellerne la gran parte, in modo da ridurli a dimensioni controllabili. E cioè dovrà realizzare, con modalità diverse tra Gaza e il West Bank, una “pulizia etnica” che non dia troppo nell’occhio.
La “pulizia etnica” è un crimine denotato da una micidiale capacità mimetica. Come dimostra la storia – dal massacro degli armeni (1915) fino all’espulsione di settecentomila Rohingya dalla Birmania (2017, genocidio secondo la procura dalla corte Onu che giudica su Gaza) – all’inizio le violenze appaiono casuali, collaterali, scollegate: e così devono essere percepite.
Solo quando la popolazione colpita cerca scampo nella fuga si capisce che c’era un piano. Ma a quel punto è troppo tardi per correre ai ripari. Diventa perciò fondamentale smascherare la trama prima che il territorio venga spopolato. Per questo sarebbe importante chiamare con il loro nome la crisi umanitaria prodotta a Gaza e la “pressione” israeliana sui palestinesi nel West Bank: sono prodromi di “pulizia etnica”. Ma questo pare un interdetto.
Non che la guerra di Gaza non susciti in Italia riflessioni severe e sconsolate (a tema fisso: l’odio, l’antisemitismo, l’evanescenza della legalità internazionale e quant’altro). Ma in sintesi questa sfuocata e fluviale affabulazione politico-mediatica suona così: non sappiamo che pesci pigliare. Siamo completamente disorientati, e i “nostri valori” non ci aiutano.
Non riusciremmo neppure a spiegare perché stiamo istintivamente tolleranti con la destra israeliana, ora che la definizione di Israele come “unica democrazia del medio oriente” pare una maschera di carnevale. Non abbiamo uno straccio di proposta concreta per tentare di salvare gli abitanti di Gaza dalle bombe e dall’esilio, e forse neppure ce ne importa.
Siamo un paese di “todos liberales” ma ignoriamo di quale liberalismo parliamo, e quali principi elementari imponga di osservare (sono accettabili l’apartheid e trasferimento di popolazione? Il massacro intenzionale di inermi? Per quieto vivere possiamo accettare che Netanyahu e Putin arraffino territori in nome del “diritto storico”?). Detto altrimenti: attraversiamo una penosa, tragicomica, paralizzante crisi di identità.
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