Nel conflitto in Medio Oriente la Cisgiordania sembra un teatro secondario, eppure è qui che si gioca il futuro dei palestinesi. Ed è qui che la situazione si sta facendo sempre più escandescente e precaria.

Dal 7 ottobre 2023 nella cosiddetta West Bank si sono registrati 4.973 attacchi terroristici, per un totale di circa 40 vittime israeliane e 719 palestinesi, 5.250 arresti e 1.264 attacchi dei coloni nei confronti degli arabi, più una serie di raid dell’Idf, avviati a fine agosto nei campi profughi di Jenin, Tulkarem e Tubas, operati con modalità simili a quelle adottate a Gaza, con evacuazioni forzate e detonazioni di interi edifici.

In questo scenario in evoluzione l’Autorità nazionale palestinese sembra ormai completamente paralizzata sia sul piano politico interno che esterno: incapace di creare un vero Stato palestinese attraverso la sua strategia di accreditamento diplomatico presso le organizzazioni internazionali, ma anche di avviare un dibattito democratico con gli altri movimenti interni all’Olp per promuovere sostanziali riforme interne e formulare un’alternativa politica alla lotta armata.

Da quando si è insediato il 19° governo palestinese, nel marzo del 2024, il nuovo primo ministro Muhammad Mustafa sembra essersi intestato solo il dossier della bilancia dei pagamenti dell’Anp e dei salari dei dipendenti pubblici, senza aver espresso alcuna opinione né sulla guerra in corso a Gaza né sugli Accordi di Abramo (il cui impianto è rifiutato dall’Anp), né tanto meno sui raid dell’esercito israeliano nelle aree A della Cisgiordania.

Per comprendere cosa si celi dietro l’immobilismo dell’Anp, abbiamo parlato con Fathi Nimer, analista del think tank palestinese indipendente al-Shabaka.

Il nuovo governo palestinese avrebbe dovuto proporre riforme e rilanciare il processo democratico all’interno dell’Anp. Cosa ne è stato di queste promesse?

Non è un segreto che il vero fulcro del potere in Cisgiordania risiede nella presidenza dell’Anp e non nel governo. Di conseguenza, qualsiasi rimaneggiamento interno all’esecutivo è destinato a non produrre effetti. L’opinione pubblica fatica a comprendere a cosa sia servito nominare un nuovo primo ministro.

Esiste un dibattito interno all’Anp sulla possibilità di abbandonare l’opzione diplomatica a favore di altri mezzi di resistenza politica non-armata? Esiste un dibattito sul fallimento degli Accordi di Oslo?

Dal 7 ottobre 2023 l’Anp ha cercato di prendere le distanze da quello che stava avvenendo a Gaza, tentando di accreditarsi come un attore neutrale. Ha anche contribuito a reprimere molte manifestazioni in sostegno di Gaza, in alcuni casi arrivando fino all’uccisione dei manifestanti. Quando è diventato chiaro che nella Striscia si consumava una vera e propria guerra, ha cambiato tono, iniziando a criticare apertamente le azioni israeliane per mantenere un minimo di legittimità di fronte alla sua opinione pubblica.

Ma l’Anp non è interessata a portare avanti alcuna modalità di “resistenza”: il suo comportamento è la prova che l’Autorità si considera un partner affidabile di Israele, impegnato nel rafforzamento del coordinamento di sicurezza con l’obiettivo primario di mantenere la calma in Cisgiordania.

In questo modo però consentono agli israeliani di proseguire nella politica di annessione di nuovi territori, mentre l’Anp potrebbe ancora fare la differenza sospendendo la cooperazione con Israele in materia di sicurezza e lasciando che i gruppi resistano all’occupazione, ma non lo fa, perché ormai si è trasformata in una ditta di subappalto del governo israeliano.

Gli Accordi di Oslo non vengono messi in discussione perché è su quelli che si regge la legittimità dell’Anp. Ammettere apertamente che questo paradigma sia giunto alla fine significherebbe riconoscere che l’intero progetto è fallito e che dovrebbero farsi da parte.

Negli ultimi anni le voci critiche sull’Anp sono state messe a tacere. Abu Mazen ha rapporti molto tesi con le formazioni che rappresentano un’alternativa a Fatah, dall’Iniziativa nazionale palestinese di Mustafa Barghouti al neopartito “Libertà” di Nasser al-Qidwa. Esiste ancora uno spazio per il dialogo?

Da quando si è consumata la divisione tra al-Fatah e Hamas (nel 2007), in Cisgiordania si è registrato un crescente autoritarismo. Non esiste più alcuna libertà d’espressione (si pensi al caso dell’omicidio di Nizar Banat, attivista e critico dell’Anp, da parte delle Forze di sicurezza palestinese nel giugno 2021, ndr), e anche le fazioni interne a Fatah che criticavano la gestione del potere di Abu Mazen sono state marginalizzate e non ricoprono incarichi di potere. A oggi, la situazione è quella di un’impossibilità totale di dialogo all’interno dell’Anp come di al-Fatah.

Esiste un dibattito su chi potrebbe ambire alla presidenza nel dopo Abu Mazen?

No, almeno non in un dibattito aperto in cui sia coinvolta l’opinione pubblica. Vi sono, ovviamente, nomi che ricorrono più frequentemente di altri – ad esempio quello di Hussein al-Sheikh, attuale segretario generale del comitato esecutivo dell’Olp, o quello di Majed Faraj, capo del Servizio generale di intelligence – ma è chiaro che chiunque verrà scelto rimarrà sugli attuali binari, in particolare riguardo alla cooperazione di sicurezza con Israele.

In tutti i casi, i cittadini palestinesi avranno poco da dire, perché è molto probabile che tale successione non avvenga attraverso le urne. Le elezioni non sono una priorità per l’Anp e si possono trovare mille pretesti per posticiparle indefinitamente.

L’unico leader palestinese che gode di un ampio sostegno popolare è Marwan Barghouti, detenuto da 22 anni nelle carceri israeliane. Qualora gli fosse permesso di partecipare alle elezioni, potrebbe produrre un cambiamento?

Da oltre 20 anni Marwan Barghouti è assolutamente il politico più popolare tra i palestinesi. È considerato un leader pragmatico che ha ottenuto una riconciliazione tra Hamas e Fatah con l’“Accordo dei Prigionieri” (2006), e anche un leader coerente che sta pagando un alto prezzo per le sue azioni. Nonostante la sua popolarità, o forse proprio in ragione di quest’ultima, l’Anp non è interessata alla liberazione di Barghouti, perché rappresenterebbe un rivale politico temibile per l’attuale presidente.

Stessa posizione per Tel Aviv, che preferisce mantenere i palestinesi divisi per sfruttare il pretesto di non avere un unico interlocutore legittimo e dare loro la colpa per la mancata ripresa di negoziati diplomatici. Solo una straordinaria mobilitazione internazionale potrebbe esercitare una pressione tale da farlo liberare, prevedendo sanzioni, embarghi e rottura di rapporti commerciali con Israele. Ma, se la comunità internazionale non si è mobilitata di fronte a Gaza e a vent’anni di apartheid, perché mai dovrebbe farlo per un solo uomo?

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