Un rapporto presentato dalla Commissione reale svela 50 anni di violenze nella chiesa cattolica neozelandese: oltre 1.300 i bambini abusati. A Domani denunciano: «La chiesa fa solo gesti simbolici».
- In Nuova Zelanda un rapporto dettagliato ha rilevato violenze su minori da parte del 14% del clero cattolico, inclusi religiosi e suore. Sono oltre cento i laici coinvolti.
- Per i coordinatori delle indagini, le cifre sottostimano la portata reale del fenomeno, tra centinaia di persone non ancora identificate e istituti cattolici finiti sotto indagine.
- Le vittime oggi riconoscono che l’ascolto non è sufficiente. Da ciò l’importanza di una commissione indipendente, diversamente da quanto prospettano i vescovi italiani.
Se «il mondo si vede meglio dalle periferie» come ha detto di recente papa Francesco, in Nuova Zelanda si consuma l’ultimo strappo della chiesa di Roma in fatto di abusi. Dal 1950 al 2000, nel paese oltre 1.300 minori e 164 adulti hanno riferito di essere stati abusati in ambienti cattolici.
È quanto ha reso noto nei giorni scorsi la Commissione reale neozelandese, istituita dal primo ministro Jacinda Ardern nel 2018, ma che solo negli ultimi due anni ha inserito nelle indagini le istituzioni cattoliche, coinvolgendo 428 parrocchie, 370 scuole, 67 istituti di cura e 43 congregazioni religiose delle sei diocesi del paese – Auckland, Hamilton, North Palmerston, Wellington, Christchurch e Dunedin. I risultati, presentati in un rapporto dettagliato coordinato dal gruppo Te Rōpū Tautoko e dal Network for Survivors, hanno sollevato la polvere sotto un tappeto di silenzi decennali: «Tra i vescovi, l’unico ad averci sostenuto è stato mons. Michael Dooley, della diocesi di Dunedin. Gli altri si sono finora opposti all’inchiesta, né hanno intrapreso azioni a sostegno delle vittime» spiega Liz Tonks, del Network for Survivors.
Preti senza nome
Secondo il rapporto, il 14 per cento del clero diocesano neozelandese si è macchiato di abusi, di cui l’8 per cento fra i membri di ordini religiosi maschili (187 su 2.286) e il 3 per cento fra le donne affiliate a congregazioni religiose (120 su 4.247). Sono oltre cento, invece, i laici e i volontari cattolici colpevoli di violenze.
Per i coordinatori di Te Rōpū Tautoko, le cifre sottostimano la portata reale del fenomeno dal momento che, fra le segnalazioni di abuso, 308 riguardano persone non identificate. La maggior parte dei crimini è avvenuta tra gli anni Sessanta e Settanta e il 75 per cento di essi prima degli anni Novanta. Singolare è il loro carattere endemico, specialmente nelle scuole e nelle strutture preposte a ospitare i più fragili.
Parallelamente alla stesura del rapporto, infatti, la Commissione reale ha avviato indagini nella Marylands School di Christchurch – una scuola residenziale per ragazzi con disabilità gestita dall’Ordine ospedaliero di san Giovanni di Dio – nell’istituto Hebron Trust e nell’orfanotrofio Saint Joseph, gestito dalla congregazione delle Suore di Nazareth.
Il gioco del silenzio
Nel caso neozelandese, è apparso centrale il ruolo delle congregazioni religiose, che nel silenzio tolleravano le violenze. È quanto racconta Mike Ledingham, abusato nella scuola da un sacerdote, in seguito accusato di abusi su decine di minori: «Avevo otto anni quando per la prima volta il prete abusò di me nella palestra della scuola. Cercavo di evitarlo, ma le suore mi riaccompagnavano puntualmente da lui, che mi aspettava» ricorda.
Suo fratello Chris, anch’egli un sopravvissuto, diventato adulto ha preso coraggio e ha scritto al vescovo di Auckland, tuttavia senza alcun risultato: «Quando non ho avuto risposta, abbiamo entrambi fatto dichiarazioni pubbliche. Solo allora sono iniziate blande trattative, accompagnate dalle smentite da parte della chiesa, che ha continuato a negare che ci fossero altre segnalazioni. Ora i dati del rapporto li smentiscono» esclama.
Per Steve Goodlass, invece, l’inferno è durato dall’85 all’89 e aveva il volto di padre Patrick Bignell, counselor del St. Bernard College: «Sono passato da bambino spensierato ad adolescente violato, che guardava il mondo con gli occhi di un abusatore» ammette. In Nuova Zelanda, dove la chiesa cattolica ha un’influenza significativa, per anni i ministri cattolici si sono trincerati dietro l’Accident Compension Act, un sistema legale che fornisce supporto e aiuto a chi subisce violenza sessuale, ma che non chiama direttamente in causa chi perpetua gli abusi: «È una cosa bizzarra, perché non c’è alcuna cura, neppure pastorale» spiega Steve.
L’ascolto non basta
Oggi le vittime esigono dalla chiesa maggiore risolutezza. Sull’eventualità di istituire una commissione indipendente che faccia luce sugli abusi anche in Italia, sul modello di quella francese o tedesca, i vescovi italiani hanno di recente fatto muro.
Intervistato dal Corriere della Sera, il presidente dei vescovi Gualtiero Bassetti ha menzionato i Centri di ascolto diocesani che, tuttavia «non sono sportelli, perché non si tratta di uffici burocratici, ma di strutture predisposte che si avvalgono di volontari formati all’ascolto e all’accoglienza».
I casi fuori dall’Italia mostrano che per le vittime ciò non è sufficiente, specialmente se fatto da sacerdoti: «Un vescovo mente facilmente, perché sa che nel confessionale può essere sempre perdonato» spiega Mike. Implacabile è quanto ammette Steve della recente dichiarazione della Santa sede sugli abusi sessuali nell’arcidiocesi di Monaco e Frisinga: «Nel comunicato mi ha colpito l’espressione utilizzata: senso di vergogna. La parola senso illustra il vero problema della chiesa. Noi sopravvissuti vediamo gesti simbolici, ma pochi sono reali. In fondo, stiamo giacendo ancora sanguinanti lungo la strada in attesa del buon Samaritano».
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