Costrette a lavorare senza sosta, affamate, molestate: sono le collaboratrici domestiche migranti in Libano. L’immigrazione è legata al ruolo di uno sponsor che ha enorme potere e i diritti delle donne sono spesso violati
Sarah non è il suo vero nome, ma l’anonimato è la sola garanzia che sembra tranquillizzarla, mentre si accinge a raccontarsi. Il titolo di questa storia, dato questo solo dettaglio, potrebbe essere: strati di paura di una lavoratrice domestica in Libano.
Neppure vuol rivelare il nome del villaggio del Madagascar da cui proviene, e che ha lasciato, senza tristezza, ormai 15 anni fa. A suo dire, delle circa 20mila donne ingaggiate in Libano come lavoratrici domestiche e provenienti dall’isola dell’Africa orientale, lei, Sarah spaventata, Sarah senza nome, è l’unica a provenire da quel villaggio.
Lì, ha lasciato tre uomini: un marito e due figli. Di padre e fratelli non parla: famiglia, in Madagascar, è un concetto relativo. Dopo il matrimonio dimentichi quella di provenienza e vieni completamente assorbita in quella acquisita.
Par alliance, come dicono in francese: alleanza tradita, ça va sans dire. Il marito, dopo che Sarah è partita per Beirut, nell’aprile del 2009, ha lasciato i due bambini alla madre – il più grande nato nel 2004 e il piccolo nel 2005 – e tutt’ora non si sa che fine abbia fatto. «Non si è fatto sentire neanche per il divorzio», riconosce, e senza amarezza. «Così, tutt’ora, siamo semplicemente separati».
Degli uomini della sua vita di prima gliene è rimasto uno solo – il piccolo Carol – dopo che il maggiore, Mickael, appena diciannovenne, è stato ucciso, lo scorso novembre: accoltellato in una rissa. Aveva insistito per trasferirsi in città, nonostante glielo avessero detto, e più volte, che era pericoloso. Una gang di tredicenni l’ha percosso fino allo svenimento, un coltello nella furia ingenua di uno di loro ne ha procurato la morte.
Guardando la foto del cadavere, Sarah non piange, ma è piena di rabbia. Non è potuta tornare a casa, al village, per il funerale. Il titolo di questa storia, mentre i dettagli si accumulano, potrebbe essere, anche: legge ingiusta proibisce alla madre di seppellire il figlio.
Cronache di una schiavitù
Se tutto andrà bene, tra qualche mese potrà partire per il Madagascar. Vuole stare vicino a Carol, il figlio minore, rimasto solo: nessun modo di portarlo con sé in Libano senza un garante. Si è fatta promettere, dai proprietari di cui settimanalmente pulisce gli appartamenti vuoti e illuminati, di farsi sostituire solo temporaneamente, finché non sarà tornata.
Nel peggiore dei casi, i suoi documenti non risulteranno a norma, e le verrà imposto di aspettare fino a 15 anni prima di poter lasciare il paese natale e tornare a Beirut. Accettare di lavorare da schiava pur di garantire al figlio rimasto un futuro, pagarne gli studi. Nell’uno e nell’altro caso, è la legge della fortuna a governare: non c’è molto che si possa fare per veicolarla, se non pregare.
In modo imprevedibile, la legge della fortuna ha assicurato Sarah nell’ultimo tumultuoso quindicennio della sua vita libanese, talvolta traendola in salvo da situazioni rischiose, talvolta mettendo in serio pericolo la sua incolumità. Nel suo primo lavoro, nella primavera del 2009, ha resistito due settimane.
Lo sponsor, così chiamano il protettore, non l’ha mai pagata. Viveva con lui e la moglie in uno di quegli immensi appartamenti in edifici troppo alti perché vi arrivi l’odore della strada; non poteva uscire, se non per sbrigare in fretta qualche faccenda, comprare i saponi mancanti nella casa, accompagnare la madame a fare la spesa.
Da mangiare le davano un pezzo di pane che teneva con la destra mentre con la sinistra non smetteva di lucidare i fornelli: se si fosse fermata, avrebbero minacciato di licenziarla. E così, un morso al panino, una passata di sgrassatore, si sentiva chiamare, Sarah, c’è del caffè nel camino, pulisci subito. E lei, decisa ma sempre educata, sempre a testa bassa, «un momento, finisco qui e arrivo». La volta che ha ricevuto uno schiaffo, dritto in faccia, ha deciso di licenziarsi e tornare all’ufficio per essere collocata in una nuova famiglia.
Il secondo lavoro è stato ancora peggio. Ha resistito tre giorni, e non pagati. Il monsieur, un dentista: Sarah aveva un ascesso e lui si era offerto di visitarla, gratuitamente. E con lei immobilizzata dall’apribocca e dalla fredda pinza odontoiatrica, paralizzata dalle mani inguantate di lui, ha ricevuto controvoglia, senza consenso, e con violenza, un bacio forte sulla bocca. La madame che li osservava dalle telecamere ha affrontato Sarah costringendola ad andarsene.
Il terzo tentativo è durato quattro anni ed è finito con Sarah all’ospedale. Mangiava a malapena, mentre puliva – uno alla volta – i tre appartamenti dell’ennesimo sfruttatore, il monsieur avvocato. Un uovo la mattina, gli avanzi dei suoi pasti alle cinque di pomeriggio. Se lei chiedeva riso – a cui il suo organismo è abituata – lui gliene lasciava due cucchiai, dicendole di arrangiarsi.
È stato allora, neanche quarantenne, che si rese conto di aver raggiunto l’esaurimento: così ha deciso di prendersi una pausa, tornare in Madagascar per un po’, pur essendo al verde, senza marito, con due bambini e una suocera da accudire. Dopo un anno in quel luogo che non riconosceva come casa, è tornata a Beirut, promettendo a sé stessa che non si sarebbe fatta abbattere. Adattarsi, dieci anni dopo quell’ultimo ritorno alla schiavitù da cui ancora non si è liberata – ma le cui regole del gioco inizia a capire – è il dono più grande che Dio le abbia fatto.
La casa è una prigione
Se solo avesse capito il contratto che ha dovuto firmare, all’ufficio reclutamenti, prima di imbarcarsi in ciascuna di queste esperienze, forse non avrebbe aspettato tanto. Il contratto è l’unico documento legale che una lavoratrice migrante ha in Libano: il fatto che sia rilasciato solo in arabo, senza essere tradotto in inglese o francese, è un aspetto indicativo del grave rischio attentato alla loro protezione da qualsiasi tipo di abuso.
Si stima che circa 250mila lavoratrici domestiche migranti risiedano in Libano: la maggior parte sono donne provenienti da paesi africani e del Sud e Sud-Est asiatico, tra cui Bangladesh, Sri Lanka, Etiopia, Ghana, Indonesia, Filippine, Madagascar e Nigeria. Sono escluse dalle tutele del diritto del lavoro libanese e il loro status nel paese è regolato dal sistema kafala, un regime restrittivo di immigrazione composto da leggi e regolamenti che ne legano la residenza legale al garante o sponsor.
Le lavoratrici non possono lasciare o cambiare datore di lavoro senza il suo consenso, il che le espone a perdere la residenza legale nel paese di accoglienza, nonché al rischio di detenzione e deportazione. Garantire agli sponsor questo livello di controllo sulla vita delle lavoratrici ha portato a una serie di abusi documentati per anni, tra cui il mancato pagamento dei salari, il confinamento forzato, orari di lavoro eccessivi senza giorni di riposo o pause, e abusi verbali, fisici e sessuali.
E se tentano di uscire di casa, lo sponsor sporge denuncia sulla base di false accuse, come fuga, furto, aggressione o addirittura tentato omicidio. Così molte donne sono state incarcerate per anni senza giustizia per crimini che non hanno commesso, senza prove né testimoni.
Le agenzie
Secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil), il 90 per cento delle lavoratrici domestiche impiegate in Libano viene reclutato attraverso un’agenzia che, attraverso agenzie partner nel paese di origine, ne garantisce la migrazione.
Il modello prevede che queste impongano elevate commissioni di assunzione che variano dai 1.000 ai 3.000 dollari, con una significativa disparità tra le tariffe a seconda del reddito del garante e della nazionalità della lavoratrice.
«Per cominciare, le agenzie di reclutamento in Libano assumono le poche donne che sono riuscite a entrare illegalmente nel paese. Poi le famiglie nel paese di origine vanno di villaggio in villaggio per reclutare altre donne vulnerabili, spesso minorenni, manipolandole, convincendole a emigrare», ha spiegato Banchi Yimer, una ex lavoratrice domestica vissuta in Libano per quasi un decennio – adesso residente a Montreal, Canada – tracciando chiaramente la catena di abusi e traffici nei paesi di transito come Sudan, Kenya, e Yemen.
Attraverso il lavoro di Egna Legna (in amarico “Noi per noi stesse”), un’organizzazione impegnata sul fronte dei diritti delle lavoratrici domestiche, Yimer e le sue colleghe hanno scoperto che diverse donne introdotte clandestinamente attraverso il Sudan o lo Yemen sono state violentate, imprigionate con la forza e costrette alla fame. Sopravvissute a un tale incubo solo per rendersi conto che una volta in Libano, aspettandosi di essere al sicuro, tutto ciò che era stato loro promesso si rivelava una bugia.
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