- Noi ricordiamo il 25 aprile 1945 come il giorno della liberazione nazionale dall’occupazione nazista, generosamente dimenticandoci due particolari: primo, che non ci eravamo affatto liberati da soli, bensì grazie all’aiuto delle truppe alleate e, secondo, che non riacquistammo affatto la libertà formale fino al 4 settembre 1947.
- La nostra “liberazione nazionale” fu dunque in realtà un passaggio dall’occupazione nazista all’occupazione americana, ma ciò nonostante ne andiamo fieri e la celebriamo ogni anno.
- Come mai allora i commentatori occidentali sono così restii ad ammettere che la vittoria talebana sia stata una liberazione del paese dagli invasori della Nato, quando l’Afghanistan non ha fatto altro che far tornare a casa loro i soldati stranieri?
Gli illuministi sapevano bene che i paesi ignoti o sconosciuti si osservano meglio da punti di vista lontani e distaccati, paragonandoli a paesi noti e conosciuti: ad esempio, nelle Lettere persiane (1721) Montesquieu fece osservare a due turisti persiani la Francia dall’interno, e nelle Lettere inglesi (1734) Voltaire la fece osservare a un emigrato francese (lui stesso) dall’Inghilterra. Forse dovremmo ricordarcelo in questi giorni, quando cerchiamo di capire le faccende interne afghane, che la maggior parte di noi non conosce da vicino, e potrebbe aiutarci il paragonarle alle faccende interne italiane, che invece dovremmo conoscere meglio.
Chi lo fa deve però mettere in conto che certi paragoni potrebbero non essere graditi in patria: così successe al libro di Voltaire, che appena pubblicato venne condannato dal parlamento e bruciato sulle scale del palazzo di Giustizia, costringendo l’autore alla fuga.
Incrociamo dunque le dita, e iniziamo con l’osservare che noi ricordiamo il 25 aprile 1945 come il giorno della liberazione nazionale dall’occupazione nazista, generosamente dimenticandoci due particolari: primo, che non ci eravamo affatto liberati da soli, bensì grazie all’aiuto delle truppe alleate e, secondo, che non riacquistammo affatto la libertà formale fino al 4 settembre 1947, quando fu ratificato il trattato di pace.
La libertà informale dagli Stati Uniti invece non l’abbiamo mai riconquistata, come dimostrano una costante presenza militare, da sessanta basi militari a diecimila soldati, e una capillare invasione di prodotti: dal junk food di McDonald’s e della Coca-Cola, al binge watching di Netflix e Amazon Prime, alla muzak di Michael Jackson e Madonna, per non parlare degli ormai ubiqui e servili anglicismi.
La nostra “liberazione nazionale” fu dunque in realtà un passaggio dall’occupazione nazista all’occupazione americana, ma ciò nonostante ne andiamo fieri e la celebriamo ogni anno, perché la seconda occupazione ci era e rimane più gradita della prima. Come mai allora i commentatori occidentali sono così restii ad ammettere che la vittoria talebana sia stata una liberazione del paese dagli invasori della Nato, quando l’Afghanistan non ha fatto altro che far tornare a casa loro i soldati stranieri? Forse solo perché tra le truppe che sono state ignominiosamente cacciate c’erano anche le nostre, e ci dà fastidio ammettere che i Talebani siano gli analoghi dei nostri partigiani.
Un’operazione neocoloniale
Eppure persino Ronald Reagan e Margaret Thatcher li chiamavano Freedom Fighters, o combattenti per la libertà, e giustamente li finanziavano e li armavano per permettere loro di liberare il proprio paese dagli invasori dell’epoca, che erano i sovietici. Ma non si vede perché essi abbiano cessato di essere partigiani nel momento in cui gli invasori sono diventati i paesi della nato, Stati Uniti in primis e Italia in ultimis.
Il motivo per cui in Afghanistan non c’erano solo gli Stati Uniti, a svolgere il loro autoimposto ruolo di “gendarme del mondo”, ma c’eravamo anche noi e altri, è risibile: l’invasione del 2001 fu infatti presentata, per la prima e unica volta nella storia, come un atto di autodifesa da parte della Nato, in reazione all’attacco subìto da uno dei suoi membri. Ma l’attentato dell’11 settembre era stato perpetrato da arabi sauditi, e non da afghani! E in ogni caso, per quanto riguarda l’Italia, la nostra Costituzione proibisce esplicitamente l’uso della guerra nell’articolo 11, che recita: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali».
E nessuno dei costituenti da strapazzo che durante la guerra in Afghanistan ha proposto raffazzonate revisioni della Costituzione, da Berlusconi a Renzi, si è mai sognato di cambiare questo articolo. Costituzione a parte, come avremmo reagito, negli anni Sessanta e Settanta, se gli Stati Uniti avessero cercato di trascinarci a combattere con loro in Vietnam, sbandierando come scusa il famigerato incidente (peraltro poi risultato inventato) del Golfo del Tonchino? I giovani europei non solo manifestavano in quegli anni contro la guerra, che pure non li coinvolgeva direttamente: rifiutavano persino, come se fossero appestate, le borse di studio per andare a studiare negli Stati Uniti, quando erano finanziate dalla Nato! Cosa è successo a quei giovani, molti dei quali sedicenti di sinistra, che da adulti si sono bevuti per vent’anni, senza fiatare, e anzi con qualche entusiasmo interventista, la favola dell’appoggio amico a un alleato colpito?
Che l’occupazione dell’Afghanistan del 2001-2021 sia stata soltanto una pura operazione neocoloniale lo dimostra il fatto che, lungi dall’essere la prima, non era altro che la quarta guerra combattuta dagli occidentali contro quel martoriato paese, dopo gli interventi inglesi del 1839-1842, 1878-1880 e 1919: dunque, si trattava soltanto di un’ennesima mossa del grande gioco narrato da Kipling in Kim (1901), nel quale gli afghani non sono mai stati altro che pedine. Un gioco che allora interessava i rapporti geopolitici fra Regno Unito e Russia, e oggi interessa quelli fra Stati Uniti, Russia e Cina, e riguarda il controllo non soltanto dell’Afghanistan, ma dell’intero ex impero sovietico e del medio oriente.
Agli inizi del nuovo millennio gli Stati Uniti stavano cercando di riposizionarsi su questo scacchiere globale, e per capire quali fossero le loro ambizioni geopolitiche bisogna leggere il famigerato rapporto Ricostruire le difese dell’America del 2000, redatto dal think tank chiamato Progetto per il Nuovo Secolo Americano (Pnac). Il gruppo aveva già proposto nel 1998 al presidente Clinton un’invasione dell’Iraq e la rimozione di Saddam Hussein, ma con l’avvento alla presidenza di George W. Bush non doveva più proporre, bensì soltanto agire: una buona parte dei suoi membri avevano infatti assunto posti chiave nella nuova amministrazione, in particolare la vicepresidenza con Dick Cheney e il ministero della Difesa con Donald Rumsfeld.
Il citato rapporto dichiarava esplicitamente che le invasioni di paesi come l’Afghanistan e l’Iraq erano elementi essenziali del nuovo colonialismo americano: «Anche con un miglioramento delle relazioni fra Stati Uniti e Iran, mantenere un’avanguardia di forze militari nella regione rimarrebbe un elemento essenziale nella strategia di sicurezza degli Stati Uniti, visti gli interessi americani a lungo termine in quelle zone». Addirittura, e ben prima dell’attentato dell’11 settembre, il rapporto notava che «il processo di trasformazione per arrivare a un cambiamento rivoluzionario potrebbe risultare molto lungo, a meno che non si verificasse un evento catastrofico e catalizzante, come una nuova Pearl Harbor». Come fu, appunto, come l’11 settembre.
Opinionisti e collaborazionisti
Solo gli ingenui o i venduti potevano dunque credere alla buona fede degli Stati Uniti riguardo alle invasioni dell’Afghanistan e dell’Iraq. E stupisce che ancor oggi molti, persino a “sinistra”, continuino a considerare le motivazioni degli interventi non come foglie di fico, necessarie a mascherare le vergogne del neocolonialismo, ma come foglie di alloro, utili a incoronare i campioni della democrazia occidentale e della sua imposizione forzata nel resto del mondo. Detto altrimenti, le posizioni a novanta gradi dei commentatori di fronte alla sconfitta delle truppe della Nato rivelano un atteggiamento servile e sottomissorio nei confronti degli Stati Uniti, e confermano che l’Italia non si è affatto liberata nel 1945, ma ha semplicemente cambiato padrone.
A questo proposito, è emblematico che sia stato proprio un italiano, l’ambasciatore Stefano Pontecorvo, a rivestire il ruolo di Rappresentante civile anziano della nato e a coordinare all’aeroporto di Kabul le operazioni della fuga ingloriosa delle truppe straniere e dei loro collaborazionisti. Gli inviati dei media occidentali, da parte loro, si sono impegnati a presentare questi ultimi come profughi politici, immemori del fatto che anche dopo il 25 aprile 1945 l’Italia dovette fare i conti con i collaborazionisti degli invasori, e ci furono non solo episodi di violenza verso le donne che avevano avuto rapporti con i tedeschi, ma anche un gran numero di esecuzioni sommarie degli uomini che avevano collaborato con il regime nazista o con il regime fantoccio di Salò. Gli episodi avvenuti in Afghanistan non sono altro che analoghe rese dei conti verso coloro che hanno collaborato con gli stranieri.
Nel 1945 i collaborazionisti italiani non poterono ovviamente trovare rifugio in Germania, che fu travolta insieme a loro. Il fatto che molti collaborazionisti afghani di oggi, così come molti dei collaborazionisti vietnamiti di ieri, siano riusciti a scappare dal loro paese e abbiano trovato rifugio nei paesi invasori, li rende semmai più fortunati e impuni dei loro omologhi italiani di allora, ed è paradossale che essi vengano addirittura presentati come eroi. In realtà molti di loro hanno beneficiato della pioggia di finanziamenti che gli Stati Uniti hanno sperperato in Afghanistan, in quantità pari a 2.000 miliardi di dollari (dieci volte la quota italiana del Pnrr post-Covid), e sperano di poter continuare a beneficiarne all’estero: a partire dal fuggitivo ex presidente Ashraf Ghani, che ha già ricevuto asilo politico negli Emirati Arabi.
A proposito del mancato gradimento in patria di questo genere di osservazioni, è stato singolare che Gino Strada sia morto poche ore prima della repentina caduta di Kabul. Per anni le sue posizioni, che ci invitavano a cospargerci il capo di cenere quando parlavamo dell’Afghanistan, invece di pontificare dall’alto del nostro pulpito, avevano infastidito i politici e lasciato indifferenti i media. Gli uni e gli altri si erano uniti come coccodrilli al cordoglio popolare seguito alla notizia della sua scomparsa, ma non appena hanno finito di suonare le campane a morto per lui, tutti sono immediatamente tornati a suonare le trombe del giudizio sugli afghani e sui Talebani, la cui colpa maggiore non è affatto di giustiziare i collaborazionisti o imporre il burqa alle donne, anche se queste sono le scuse che noi accampiamo, ma di aver voluto liberarsi dal giogo del colonialismo occidentale. E, soprattutto, di esserci per ora riusciti.
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