La minaccia egiziana di affiancare il Sud Africa nella causa contro Israele segna il fallimento della strategia israeliana del dopo 7 ottobre. Una deriva che riguarda anche la debolezza delle democrazie odierne
Altre nubi si addensano all’orizzonte israeliano oltre alla richiesta del procuratore Khan. La minaccia egiziana di schierarsi al fianco del Sudafrica nel contenzioso aperto alla Corte di giustizia internazionale rivela il totale fallimento della strategia adottata dopo il sette ottobre. Si voleva eradicare Hamas; la si è rafforzata politicamente. I meccanismi di consenso sono sempre delicati, mai automatici, e, soprattutto, non riducibili a sondaggi, tanto più in zone così delicate.
Può darsi che i gazawi finiranno con l’accusarla di quanto stanno soffrendo ora, essendo chiaro a chiunque che la reazione israeliana di fronte all’eccidio subito sarebbe stata senza precedenti. Non parliamo, poi, della gestione quotidiana della Striscia, ben rivelata da un articolo sul Nyt, che descrive nel dettaglio il sistema mafioso di governo del gruppo fondamentalista.
È, comunque, chiaro anche a chi ha gli occhi foderati che, se prima della guerra era in crisi e subiva la concorrenza delle svariate sigle che rientrano nella galassia del jihad islamico, oggi Hamas si è riproposta come soggetto egemone, fino al punto da imporre la propria presenza nelle trattative per il dopo conflitto. Israele aveva, poi, a disposizione uno scenario mediorientale inedito, con i paesi sunniti, già da tempo in manovra di avvicinamento verso lo Stato ebraico, disposti a creare un asse storico in funzione anti Iran. La risposta all’attacco iraniano di aprile ne è stata un’ulteriore prova, con Giordania e Arabia Saudita disposte a cedere il proprio spazio aereo per agevolare la difesa orchestrata dagli Usa. A parole hanno difeso loro stessi, nei fatti il loro vecchio nemico.
Dopo aver respinto più volte la mano di Bin Salman, disposto a portare a compimento il percorso degli Accordi di Abramo e dopo aver più volte messo le dita negli occhi ai governi nazionalisti arabi impegnati in una campagna interna di repressione del supporto propalestinese, ora vede messo in discussione pure il posizionamento storico dell’Egitto, a fianco di Tel Aviv dal lontano 1979, se si esclude la breve parentesi di Morsi, che portò alla rottura delle relazioni diplomatiche. Non parliamo del rapporto con gli Stati Uniti.
Già in crisi durante il periodo della contestatissima riforma giudiziaria, si sta ulteriormente degradando in questi mesi di guerra, dove si è già visto il governo Usa astenersi dal mettere il veto sulla risoluzione per un immediato cessate il fuoco di fine marzo e dove, più recentemente, il Congresso ha bloccato un invio di armi. In tutto questo, Hamas continua a lanciare i suoi missili verso le città al sud di Israele, anche se la sua potenza di fuoco è, ovviamente, enormemente ridotta rispetto alle migliaia di razzi su tutto il territorio israeliano di inizio conflitto; Yahya Sinwar, dato per morto a tempi alterni, è vivo e vegeto nella città sotterranea sotto la Striscia e l’ala politica pontifica come nulla fosse dalle proprie suite in Qatar.
Sugli ostaggi, meglio stendere un velo pietoso: con la trattativa ne sono stati riportati a casa 54, con l’azione militare due. Cosa si è scelto per liberare i restanti? L’azione militare. Se si aggiungono le migliaia di sfollati al nord, dove resta costante il lancio di missili reciproco con Hezbollah e il danno inferto dagli Houthi al porto di Eilat, oltre alle difficoltà economiche di una guerra inedita per lunghezza nella storia del paese, si ha un quadro completo del disastro strategico in cui si è infilato il governo Netanyahu, sempre più ostaggio della visione paranoica del leader e delle pretese messianiche dei suoi alleati.
Purtroppo, a oggi, nessuno è stato in grado di trovare un’alternativa di governo. A ben vedere, un monito per tutte le democrazie del mondo, che hanno visto sostituire partiti storici, radicati nei territori, con movimenti personalistici privi di qualunque base solida e incapaci di fare davvero politica. Da quando Gantz è entrato nel gabinetto di guerra, la sua voce si è fatta più fine di quella della Trascendenza (riferimento biblico). Vedremo se manterrà fede all’ultimatum dell’otto giugno dato in queste ore a Netanyahu. Intanto Lapid pare del tutto incapace di contrastare la narrazione imperante e di imporre il tema dei confini dello Stato.
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