Amira Hass è una delle giornaliste israeliane più note. Per decenni ha vissuto nei Territori occupati, a Ramallah, e per tre anni anche a Gaza, raccontando la condizione del popolo palestinese sotto l’occupazione israeliana e le sue sofferenze per il quotidiano israeliano Haaretz. Domani l’ha incontrata al festival di Internazionale a Ferrara.

A più di un anno ormai dal 7 ottobre, quale è la situazione della politica palestinese?

Tra le varie cose che Israele si è assicurato di ottenere, c’è l’indebolimento dell’Autorità nazionale palestinese (Anp). Questo faceva parte dei piani del premier Benjamin Netanyahu. Permettendo ad Hamas di essere più forte a Gaza, avrebbe indebolito l’Anp. L’Anp è stata fedele alla promessa fatta negli Accordi di Oslo: in risposta alla graduale riduzione dell’occupazione da parte di Israele, i palestinesi fermeranno immediatamente ogni attività violenta e terroristica contro Israele. I palestinesi erano pronti alla fase storica di uno Stato palestinese accanto a Israele. Ma Israele ha mantenuto l’occupazione e l’ha resa anche più sofisticata. E poi ci sono altri fattori interni che non sono necessariamente dovuti a Israele. La corruzione e il fatto che l’Anp è diventata una nomenclatura. Hanno un passato di lotta contro l’occupazione, ma sentono di meritare una certa stabilità ora. Per questo non appoggiano un cambiamento radicale, cioè la lotta popolare, riformare l’Anp, cambiare le regole del gioco. Il loro interesse immediato è mantenere un basso profilo.

Chi potrebbe avere quindi un ruolo nel processo di pace?

Non uso l’espressione “processo di pace”. È stata talmente svuotata da Israele che ormai non c’è nessun palestinese che parli di pace. Bisogna tornare alla questione del colonialismo e pensare: come si procede da qui? Penso che i palestinesi abbiano davanti una grande sfida. Il grande obiettivo è quello di costruire qualcosa di simile all’Olp, il che significa una leadership politica esterna ai Territori occupati, non militare e non sotto i dettami israeliani. Una leadership composta da rappresentanti di tutte le aree in cui vivono i palestinesi. Ora, c’è un’enorme crisi politica all’interno dei palestinesi. Hamas è diventata solo militare. Deve essere un collettivo di pensatori, di attivisti, di uomini d’affari prima di tutto, per decidere cosa vogliono. È difficile perché le persone hanno punti di vista diversi, ma devono concordare alcuni principi per poter stare insieme. Sta a loro decidere come.

Sui Territori occupati esiste anche il problema dei coloni, che, secondo molti osservatori, hanno approfittato della guerra per espandere gli insediamenti in Cisgiordania.

I coloni sono stati inviati da Israele dal 1967 per ostacolare o rendere più difficile qualsiasi futuro ritiro di Israele dalla Cisgiordania e per ostacolare la possibilità della creazione di uno Stato palestinese. Enormi insediamenti furono incoraggiati e sponsorizzati dai governi. Circa un terzo di Gerusalemme Est fu conquistato e sviluppato come area per insediamenti ebraici. Dalla metà degli anni Novanta era il modo dei coloni per fermare l’attuazione dell’accordo di Oslo. Sono diventati molto importanti con la loro violenza, con la pianificazione, ottenendo posizioni importanti nei governi locali. Sono diventati il fattore più potente e determinante nella politica israeliana. Quindi tutto ciò che vediamo oggi, la proliferazione degli avamposti, la violenza, è organizzato. È centralizzato. E ricevono molto denaro.

Da chi?

Una parte proviene dal governo perché controllano alcune amministrazioni locali in Cisgiordania. Inoltre, ricevono molte donazioni da ebrei e cristiani sionisti in America. Da strumento, sono diventati un fattore decisivo nella politica israeliana. E si vede dalla loro violenza. Per anni, tutte le forze dell’ordine israeliane sono state molto indulgenti con i coloni. Perché servivano lo stesso obiettivo dello Stato, che è colonizzare la terra. Quindi, li hanno lasciati fare. Ma ora, gli si sta ritorcendo contro, perché sono violenti, a volte anche contro i soldati. Mettono in pericolo la zona. E se ora qualcuno in Israele se ne rammarica non ha il potere politico per fermarli, perché il gruppo più forte nel governo è quello sionista, religioso, composto per la maggior parte da coloni.

Quali sono le prospettive ora per un cessate il fuoco a Gaza, il rilascio degli ostaggi e la soluzione dei due Stati?

Non uso la parola soluzione. La soluzione è qualcosa di finale. Nella storia ci sono fasi. Credo che i due Stati siano stati uno stadio logico, una fase storica. Questa soluzione non avrebbe cancellato il problema del colonialismo ebraico-israeliano, ma ci avrebbe permesso di intraprendere una strada più vantaggiosa per i due popoli. Se Oslo avesse significato la fine dell’occupazione e lo smantellamento degli insediamenti, sarebbe stato un buon messaggio. Che le cose non sono deterministiche. Ma questo non è successo. I coloni causano la distruzione delle terre palestinesi, della loro vita, dei modi di vita tradizionali, delle strade e dei collegamenti tradizionali. E c’è ancora chi dice che non si possono smantellare gli insediamenti. C’è qualcosa di razzista in questo. Non si può fare perché gli ebrei hanno già una vita lì, ma si è d’accordo nel lasciare che i palestinesi perdano tutta la loro vita ogni giorno. Azioni politiche avrebbero potuto fare molto per fermare la politica degli insediamenti, ma solo misure politiche. Non guerre. Ma non sono state adottate.

Netanyahu ha parlato recentemente di un’opportunità unica di ribilanciare i poteri nella regione. Cosa pensi abbia in mente?

C’è una totale esaltazione della leadership israeliana e di alcune parti della società israeliana, che crede nel potenziale illimitato di armi e guerre per modellare il futuro. Non riesco davvero a identificarmi con quello che stanno facendo. Prima o poi, e non è una cosa che mi piace dire, se Hezbollah e l’Iran si sentiranno così debilitati, potranno tornare all’opzione di attacchi contro gli ebrei, fuori, in Europa, in Sud America o altrove. Non c’è limite quando si segue questa logica della militarizzazione.

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