Fabio Nicolucci è un profondo conoscitore della storia di Israele. Nonostante questo rimane anche lui colpito dalla situazione attuale di un paese che sta perdendo la sua qualità democratica e forse la sua anima. In Israele e il 7 ottobre. Prima e dopo (Guerini e associati) Nicolucci ripercorre tutta la storia dalla nascita del sionismo e dello stato alla dottrina di sicurezza israeliana, le guerre, l’Olp, Monaco, Entebbe, guerra del Kippur, Oslo, Libano, fino all’avvento di Benjamin Netanyahu.

Si tratta di una lettura davvero agile, utile per un riassunto approfondito della vicenda dello stato ebraico, del quale tanto parliamo dimenticando tuttavia spesso alcuni passaggi fondamentali.

La prima parte del libro serve anche a comprendere cos’è accaduto dentro Israele: un aspetto che sovente sfugge per la sua complessità. Nulla di ciò che è accaduto era inevitabile, come si capisce seguendo la parabola della sinistra israeliana (l’autore aveva già pubblicato un precedente volume, Sinistra e Israele, tra l’altro dedicato a Yitzhak Rabin) e il rafforzarsi della destra religiosa e suprematista che oggi governa. L’abilità del primo ministro non basta a spiegare il mutamento antropologico dell’Israele odierna, un paese molto diverso da quello che avevamo in testa anni fa. Ma poi tutto precipita con il 7 ottobre.

La follia di Hamas fa uscire il genio maligno dalla lampada e nulla sarà più come prima, malgrado si giunga a quella data dopo che la società israeliana aveva dimostrato di possedere ancora una difesa immunitaria democratica. Stupisce come la prima reazione all’attacco terroristico provenga proprio da quei settori militari progressisti, allontanati per lo più dai comandi per mano di Netanyahu e dei suoi. Nel libro si affronta il fallimento dell’intelligence ma anche il suo indebolimento crescente voluto dai vertici politici che non si fidavano (né si fidano oggi) della loro lealtà.

Sono pagine particolarmente affascinanti perché scritte tenendo conto del punto di vista dei professionisti della sicurezza israeliani. Sappiamo ormai che l’obiettivo politico dell’attacco del 7 ottobre era di far decadere gli Accordi di Abramo rimettendo in pista la posizione filoiraniana in tutta la regione. Tuttavia il massacro diventa un atroce pogrom di bambini e civili innocenti, svelando la sua chiara volontà genocida. La reazione israeliana (sostenuta da tutti i cittadini) non può che essere durissima, iniziando da subito a mostrarsi sproporzionata.

Anzi: la sproporzione viene legittimata allo scopo di giungere a una definitiva (per quanto chimerica) sicurezza. La parte più innovativa del libro è quella che affronta le “tre guerre” – come le chiama l’autore – che Israele si trova a combattere contemporaneamente: quella di Tsahal (l’esercito israeliano) per il proprio onore; quella dei coloni in Cisgiordania e infine quella di Netanyahu contro tutti. Ognuna di queste guerre si cela dietro le altre. Emerge molto bene come i due estremi possano assurdamente toccarsi: le scelte di Yahia Sinwar e quelle di Benjamin Netanyahu si armonizzano in un atroce scambio che permette a entrambi di legittimarsi.

Si impone così in Israele la “leggenda di Masada”: un paese solo contro tutti (i 7 fronti indicati dal premier), che fondamentalmente non ha amici (nemmeno gli Usa di Joe Biden), non ne vuole e di conseguenza non ascolta più nessuno. L’unica politica possibile resta combattere o perire, anche se tutti sono consapevoli che il gap tecnologico tra Tel Aviv e i suoi nemici è cresciuto a dismisura e che nessuno possiede armi (apparentemente nemmeno Teheran) per minacciare davvero Israele.

Ne consegue un paradosso: nel momento in cui lo stato ebraico è più sicuro, esso si sente più vulnerabile, o almeno si fa in modo che la popolazione percepisca tale incertezza. Il 7 ottobre diviene così una nuova shoà con il suo corollario di memoria e paure. Nel libro si parla di una «alleanza informale con Hamas» a tale scopo: far durare la guerra il più possibile e tenere i cittadini in allarme costante. In tutto questo c’è sicuramente un interesse personale del premier che teme i tribunali e ha una maggioranza esigua e rissosa.

Ma – lo notiamo meglio oggi – c’è anche un fossato ideologico scavato nei decenni precedenti, che mira al confronto bellico con l’islam sciita (e per alcuni suprematisti israeliani con l’islam tout court). Il fatto che la parte sunnita non protesti (come avveniva una volta) fa da supporto a tale politica, come si nota oggi in Libano e nel confronto con gli iraniani. Nel libro si spiegano bene i contorni di tale «sacrilega alleanza de facto» che ha portato Israele laddove non ce lo aspettavamo, con l’emersione di un «nemico interno» annidato nelle divisioni politico-religiose del paese.

Molte testimonianze di leader dell’intelligence e dell’esercito impreziosiscono tale analisi, che l’autore fa sua non come una posizione ideologica, ma come reale spostamento dell’asse politico del paese. In particolare segnaliamo quella finale di Yaakov Peri, ex capo del servizio segreto Shin Beth.

Il libro contiene delle vere e proprie esclusive che saranno molto utili a tutti coloro che studiano l’Israele di oggi, il quale continuerà a rimanere il perno centrale della martoriata regione del Medio Oriente per lungo tempo ancora.


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