- Arriviamo a Nablus che i soldati israeliani sono andati via da qualche minuto. Ci inoltriamo nei vicoli stretti della città vecchia che in alcuni punti diventano quasi cunicoli. È stata un’incursione rapida, ci dice Suleiman, uno dei ragazzini che ci porta fino alla casa di Yasan Fuqha, l’uomo che le forze speciali israeliane cercavano.
- Il governo di Benjamin Netanyahu eletto lo scorso novembre è il più a destra dalla nascita dello stato di Israele, settantacinque anni fa. A febbraio il governo ha presentato una proposta di riforma della giustizia che da allora ogni sabato porta in piazza a Tel Aviv decine di migliaia di manifestanti, preoccupati dello stato di democrazia di Israele.
- A Jenin la comunità sta aspettando il corpo di Tariq Ezzedine, uno dei tre capi della Jihad Islamica obiettivo del raid di lunedì scorso.
Arriviamo a Nablus che i soldati israeliani sono andati via da qualche minuto. Ci inoltriamo nei vicoli stretti della città vecchia che in alcuni punti diventano quasi cunicoli. È stata un’incursione rapida, ci dice Suleiman, uno dei ragazzini che ci porta fino alla casa di Yasan Fuqha, l’uomo che le forze speciali israeliane cercavano.
Sono arrivati all’alba nella parte vecchia di Nablus, città a circa cento chilometri a nord di Ramallah dove l’autorità nazionale palestinese ha de facto il suo quartier generale. Alcuni giornalisti locali ci dicono che in realtà il commando ha sbagliato casa e ha sfondato la porta di Hamza Mansour, il vicino. «Mi hanno immobilizzato e picchiato. Quando poi hanno capito che non ero io l’uomo che cercavano, si sono dileguati».
Lungo la breve scalinata che scende fino alla casa accanto, quella giusta, c’è un via vai di persone. Parenti e amici sono venuti pagare il loro tributo alla famiglia di Yasan Fuqha. I soldati israeliani non hanno dato spiegazioni, ci racconta il papà. «L’hanno preso e se lo sono portato via», continua. Alle spalle la mamma stringe forte il figlio di Yasan, suo nipote. Piano piano la casa si affolla. Nessuno fa domande sulle accuse formulate dagli israeliani, come se tutti avessero già delle risposte.
«Matlub», dice lo zio di Yasan. Matlub in arabo significa ricercato. Il capo di imputazione sarebbe sospetto terrorista. Anche se non è la norma, qui nei territori occupati della Cisgiordania è la prassi. «Stavamo ancora commentando la notizia del razzo sulla Striscia di Gaza che ha ucciso dodici persone lì, quando abbiamo saputo del raid qui a Nablus», dice Basel, un commerciante della città vecchia.
Lunedì scorso Tel Aviv ha lanciato su Gaza una nuova operazione militare battezzata Arco e Frecce in cui sono morte circa trenta persone. Da Gaza i gruppi combattenti stanno rispondendo al fuoco con razzi verso le colonie a ridosso della Striscia. Uno sarebbe il colono rimasto ucciso sotto il fuoco di Hamas nella Stricia di Gaza.
Basel fu arrestato poco più che ventenne dagli israeliani e in carcere ha passato dodici anni. «Gli israeliani vogliono provocarci, vogliono che rispondiamo al loro fuoco per poter spostare l’attenzione dal malcontento verso il governo e le proteste a Tel Aviv sul nemico comune, e cioè noi palestinesi», commenta Basel.
Il giorno prima, l’esercito israeliano ha sferrato un attacco aereo sulla Striscia di Gaza. L’obiettivo dell’operazione erano tre leader della Jihad Islamica Palestinese, ma nell’attacco sono rimasti uccise altre dieci persone, i figli e le mogli degli obiettivi. Basel è stato anni in carcere a Tel Aviv quando era poco più che ventenne.
Oggi porta avanti il progetto di riqualifica della parte vecchia di Nablus. «Noi non ci caschiamo. Mentre loro ci aggrediscono, noi continuiamo a costruire la nostra vita», dice con il sorriso largo di chi ha ben piantati i piedi nella sua terra. Basel oggi è impegnato in un progetto di riqualificazione della città vecchia di Nablus. «Il mio contributo nella difesa della Palestina», spiega.
L’uccisione di Abu Akleh
Il governo di Benjamin Netanyahu eletto lo scorso novembre è il più a destra dalla nascita dello stato di Israele, settantacinque anni fa. A febbraio il governo ha presentato una proposta di riforma della giustizia che da allora ogni sabato porta in piazza a Tel Aviv decine di migliaia di manifestanti, preoccupati dello stato di democrazia di Israele.
«È buffo sentire parlare di timore per la fine della democrazia in Israele», commenta con noi Jivara Budeiri, corrispondente di Al Jazeera, nella chiesa cattolica di Beit Hanina a Gerusalemme dove decine di persone sono venute a commemorare Shireen Abu Akleh, la collega uccisa dai soldati israeliani nei territori occupati un anno fa. Le immagini dell’uccisione della corrispondente di Al Jazeera hanno fatto il giro del mondo, tanto che le forze di difesa israeliane hanno dovuto fare un passo indietro e porgere le scuse per quello che Tel Aviv definisce un tragico errore. «Anche se il mondo è tornato a girarsi dall’altra parte, noi resteremo sul terreno a documentare quello che succede in Palestina», conclude Jivara Budeiri.
Nei territori occupati della Cisgiordania la tensione è alta. «In qualsiasi momento potrebbe esplodere la rabbia per quello che sta succedendo a Gaza», dice Ibrahim, un fotografo indipendente palestinese qui nei territori occupati. Anche Ibrahim, 36 anni, ha già alle spalle sette anni di prigionia nelle carceri israeliane. «Due di isolamento», specifica. Andiamo in giro con lui, ci indica i checkpoint lungo la strada.
«Da inizio anno non passa giorno che i soldati israeliani entrino nel nostro territorio», spiega Ibrahim. Di giorno i soldati israeliani restano chiusi nelle guardiole a ridosso dei circa centotrenta insediamenti dove in tutto vivono centotrentamila coloni israeliani, mentre di notte le forze speciali fanno incursione nei villaggi palestinesi e irrompono nelle case alla ricerca, ufficialmente, di sospetti terroristi.
Anche mercoledì il telefono squilla all’alba. Ibrahim ci dice che le forze speciali israeliane si sono appena ritirate da Qabatia, un villaggio a sud di Jenin, circa centoquaranta chilometri a nord di Ramallah. Cercavano Ahmed Assaf e Rani Qatuat. C’è stato uno scontro a fuoco e i due matlubin, ricercati, sono rimasti uccisi. Arriviamo che non è ancora mezzogiorno, e già un migliaio di uomini scorre lungo le vie della città verso il cimitero per seppellire il corpo di Ahmed Assaf al cimitero. Il corpo di Rani Qatuat è stato portato a Jenin, suo villaggio di origine.
Dietro il feretro per le strade di Qabatia sfilano decine di uomini armati della Jihad Islamica Palestinese con le loro fasce nere. Alla fine del corteo funebre dell’ultima vittima di questa guerra che si consuma ormai da cinquant’anni, tra le pietre tombali del cimitero si intravedono anche alcuni uomini di Hamas. Li si riconosce dalla loro fascia verde. Hamas è una sorta di nuovo attore qui nel territorio di Jenin dove invece la Jihad Islamica Palestinese vanta la sua base.
I figli uccisi
A Jenin la comunità sta aspettando il corpo di Tariq Ezzedine, uno dei tre capi della Jihad Islamica obiettivo del raid di lunedì scorso. «Tariq era di qui. Lui è stato uno dei fondatori del gruppo qui a Jenin all’inizi degli anni Ottanta», spiega il fratello Ibrahim. Il gruppo della Jihad Islamica Palestinese è nato nel 1981 in seno al movimento dei fratelli musulmani per la difesa del territorio e la resistenza. Il gruppo rifiuta la soluzione a due stati e rivendica il diritto allo Stato della grande Palestina.
Ezzedine è stato ucciso a Gaza da uno dei missili lanciato da Israele. Insieme a lui in casa sono rimasti uccisi i figli di otto e undici anni e sua moglie. «Perché non lo hanno preso quando era solo? Mio fratello neanche si nascondeva. Avrebbero potuto ucciderlo senza uccidere anche i suoi figli. Ma agli israeliani non importa delle vite umane», continua Ibrahim Ezzedine mentre decine di uomini vengono a pagare il loro tributo di rispetto.
Tariq Ezzedine è stato in prigione per circa venti anni. Fu rilasciato nel 2011 in virtù dell’accordo di Gilad Shalit sullo scambio dei prigionieri nel 2011, in base al quale fu deportato dagli Israeliani a Gaza con il divieto assoluto di rientrare in Cisgiordania. «Per dodici anni mio fratello non è potuto mai venire a sedersi con noi qui a casa. Ora spero che ci restituiscano almeno il suo corpo».
Anche la madre di Adnan Khadr aspetta a Arrabia, a qualche chilometro di distanza da Jenin, il corpo di suo figlio morto sabato scorso in una prigione israeliana dopo 86 giorni di sciopero della fame. «Anche da morti siamo pericolosi?», si chieda una amica di famiglia di Adnan Khadr che da tre giorni ha intrapreso lo sciopero della fame a Ramallah in attesa del corpo di Adnan.
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