Nel mondo di Trump, Putin non solo ottiene ciò che vuole con la forza delle armi, ma viene riconosciuto come interlocutore a cui rivolgersi per far finire una guerra che è iniziata soltanto per sua volontà
Vedremo in che direzione andranno – se effettivamente andranno da qualche parte – i negoziati sulla fine della guerra in Ucraina che Donald Trump ha curiosamente inaugurato con una telefonata all’aggressore, Vladimir Putin, ma la giornata di mercoledì ha chiarito il senso politico della vicenda.
Gli Stati Uniti hanno comunicato alla Russia che le guerre di aggressione funzionano, che gli aggressori possono violare qualunque norma internazionale ed essere legittimati come interlocutori al pari degli aggrediti, portando anche a casa vantaggi territoriali, garanzie di sicurezza, riabilitazione internazionale e un posto d’onore al tavolo dei negoziati.
Con Trump è sempre difficile dire se le manovre politiche sono attentamente studiate o a volte dalle forze caotiche dell’amministrazione emergono cose che possono apparire organizzate agli osservatori, ma il messaggio mandato mercoledì è sembrato ben congegnato. Il governo ha messo in scena l’iniziativa su tre schermi, uno a Washington, uno a Bruxelles e uno a Kiev.
L’amico Vladimir
A Washington Trump ha chiamato il vecchio sodale Putin, ha proposto di avviare un negoziato per finire una guerra ridicola e sanguinosa, ha fissato i termini per uno o più incontri, il primo dei quali potrebbe avvenire in Arabia Saudita.
Sullo sfondo, si consumava uno scambio propiziatorio: un insegnante americano imprigionato in Russia con implausibili accuse di traffico di droga veniva rilasciato in cambio di un criptotruffatore russo incarcerato negli Usa. Soltanto in subordine Trump ha telefonato a Volodymyr Zelensky, che in teoria è l’alleato e l’amico da difendere ma in pratica viene informato a cose fatte.
Contemporaneamente, a Bruxelles, il segretario della Difesa, Pete Hegseth, spiegava agli alleati del gruppo di contatto sull’Ucraina che Kiev può dimenticarsi l’ingresso nella Nato, deve abbandonare l’idea irrealistica del ritorno ai confini del 2014 e già che c’è deve anche smettere di fare affidamento sugli Stati Uniti per la sicurezza, visto che lo sguardo della Casa Bianca ora deve rivolgersi verso la Cina e dell’assetto del continente europeo devono occuparsi, appunto, gli alleati europei. Quelli che da decenni viaggiano sul treno della Nato senza pagare il biglietto, o quasi.
Nel terzo schermo c’era il segretario del Tesoro americano, Scott Bessent, in visita a Kiev, il primo fra i rappresentanti dell’amministrazione a incontrare Zelensky in Ucraina. Bessent portava un messaggio chiaro e trrumpiano: gli Stati Uniti vogliono un accordo di cooperazione economica con l’Ucraina, in cambio del quale forniranno ancora sostegno materiale al paese.
Trump ha mandato il suo inviato a siglare un affare, non a rassicurare un alleato. A questa immagine andrebbe aggiunta anche quella di Tulsi Gabbard, una veterana della diffusione della propaganda del Cremlino, che mentre accadeva tutto questo è stata confermata come direttrice dell’intelligence americana.
Se si mettono insieme queste scene non è difficile indovinare la trama della serie.
Trump rinuncia a proteggere l’Ucraina attraverso la Nato, chiede all’Europa cose che (per colpe proprie) non è politicamente e militarmente in grado di dare in questo momento, eleva Putin al rango di interlocutore legittimo senza nessuna precondizione, mette Zelensky nella posizione di chi deve offrire qualcosa per essere aiutato a difendersi, mostra di avere altre priorità geopolitiche e, in ultima analisi, di infischiarsene se Putin o chiunque altro decida di attaccare un vicino per annettere pezzi di territorio e sovranità.
Nel mondo di Trump, Putin non solo ottiene ciò che vuole con la forza delle armi, ma viene riconosciuto come interlocutore a cui rivolgersi per far finire una guerra che è iniziata soltanto per sua volontà.
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