Sul palco dei Brick Awards, premio storico per le lotte della comunità Lgbt, quest’anno c’era un’italiana. Attivista trans, lavora nelle periferie e nelle carceri: «Serve un movimento di sinistra contro la prevaricazione»
New York, anno 1969. Durante una retata in uno dei bar dove si ritrovava, ancora costretta a nascondersi, la comunità gay della città, una bottiglia viene tirata contro le pattuglie della polizia. Cominciò così, con quel volo di vetro e lo slogan “gay is good, gay is proud”, la rivolta di Stonewall, ancora oggi considerata l’origine della lotta per i diritti Lgbtqi+.
Quella notte al Greenwich Village uomini e donne omosessuali statunitensi smisero di vergognarsi per iniziare a combattere per i loro diritti e oggi, oltre mezzo secolo dopo, un premio battezzato in onore di quegli anni che accesero la miccia del movimento gay, omaggia gli attivisti che si distinguono per le battaglie per l’intera comunità.
Sul palco il 18 novembre, per gli Stonewall Inn Brick Awards, insieme all’attore Billy Porter (già Emmy, Tony e Grammy award), c’era un’italiana: Daniela Lourdes Falanga. Donna trans, meridionale, racconta che è come ritrovarsi «nelle radici della storia, dove è cominciata la resistenza totale, su tutti i fronti, per quei diritti che ahimè non sono ancora oggi garantiti. Ma io ero lì sul palco con la mia forza».
Quel premio, ha detto Falanga al Corriere del Mezzogiorno, lo dedica «al piccolo Raffaele. Umiliato, offeso, ferito, isolato». A «quel/la bambino/a trans che nessuno voleva guardare in faccia, educato a tutti i costi ad essere uomo», come scrive su Instagram.
Il ritratto di Daniela insieme a quello di altri attivisti è stato proiettato a Time Square: «È ancora più emozionante ora che al governo arriva Donald Trump, arriva Elon Musk. Quel volto sta lì per dire che siamo qui: resistiamo. Siamo un esercito di pace».
La guerra in casa
Ieri presidente dell’associazione Antinoo Arcigay Napoli, oggi Daniela è diventata membro della segreteria nazionale con delega contrasto alle mafie. Ma prima di combattere per gli altri, ha dovuto farlo per sé. E se ogni guerra è impossibile, lo è sempre di più quando la combatti a sud.
Quando nasce in provincia di Napoli nel 1977, è un bambino di nome Raffaele, figlio di un boss della camorra. A Torre Annunziata, nei paesini vesuviani dove il pregiudizio vuole che splenda sempre il sole, ma dietro le tende brilla ancora oggi solo buio patriarcale, la prima guerra di Daniela è in casa. Quando l’alternativa è mentire, omologarsi o silenziarsi, ne trova un’altra: la più difficile. Volta le spalle e dice addio: chiude la porta e i legami con una famiglia violenta e criminale. Abbraccia l’ignoto, sfida il vuoto, non c’è rete di protezione.
Prima di risalire in superficie, ogni forza rivoluzionaria è costretta a essere carsica. Quando Daniela comincia il percorso di transizione non è un’attivista. Anzi: è «sola al mondo, completamente». Aveva 19 anni e niente più. Pensava all’epoca: «Sono l’unica al mondo a dover affrontare questa sfida. La violenza che fa sentire qualcuno diverso è condanna alla solitudine e di solitudine si muore».
Ma è proprio alla luce led dei corridoi dell’ospedale, piegata da dolori atroci, che si sa ribattezzare nuova, facendo appello alla parte più intima che la abita: quella religiosa, «quella legata a mia nonna che mi portava in chiesa a Pompei ogni domenica».
Sceglie di chiamarsi Daniela, che vuol dire «vista da Dio», e anche Lourdes, «un omaggio a quella Madonna che mi aveva liberata dal dolore. Per quel dolore da cui rinasci. Viviamo in una società in cui se non siamo uguali siamo soli: è un atteggiamento preistorico che vuole eliminare il femminino in ogni sua forma. Lo dico sempre: noi siamo vittime dell’inconsuetudine».
Una bandiera
Da allora la vesuviana ha fatto del suo corpo la bandiera umana di una guerra che combattono milioni di persone, la sua voce è diventata un richiamo alla resistenza per molti. Da quando si è liberata, non ha mai smesso di raccontare la sua storia e la ripete ogni volta che qualcuno gliela chiede. Lo fa al consultorio Incontra, dove aiuta persone trans e non binarie, «quelle che subiscono di più l’ostracismo sociale, perché sono le più evidenti, senza privacy e intimità, parte fragile di un mondo che infragilisce, ma procedono con coraggio». E nelle scuole d’Italia (tutte, dalle elementari ai licei).
Nelle aule i ragazzini prima la deridono, poi rimangono zitti e si mettono in ascolto. «Chi siamo noi, cosa è il mondo, che la differenza è straordinaria ricchezza: questo gli spiego». Tra i banchi a volte i bulli si alzano e dicono: «Daniela, scusa, non avevamo capito niente». Le chiedono di ritornare, infine la abbracciano: «Dalla derisione altrui ho attinto la potenza del cambiamento per guardare in faccia all’altro. Io non posso rispondere mai con rabbia e superficialità. Io sono lì per cambiare le cose. Questa è la rivoluzione».
Attivismo in carcere
Pure nelle carceri di Pozzuoli, Poggioreale e Secondigliano, in Campania, la conoscono bene. Lei, la sua aura serena da placida battagliera: mai rabbia in faccia, in bocca o in corpo. Distribuisce pazienza: «La calma è il modo in cui volevo chiarire al mondo che non eravamo mostri: il vero mostro è l’ignoranza. Questa guerra la potevo combattere solo con la calma, la costanza, determinazione per non abbassare la testa. Non è facile estrarre da se stessi il mostro e farlo diventare bellissimo, ma bisognava farlo. Nella rabbia c’è solo separazione e violenza e so cosa creano: distanza, paura e timore. Lo so bene fin da piccola: sono nata in una famiglia di camorra».
Di potere, patriarcato «che abusa di una fetta enorme della popolazione mondiale» e resistenza va a parlare anche alle «persone detenute, quelle che cominciano a sentirsi dignitose solo perché stanno ascoltando cose mai sentite prima. E se si comincia a sentire dignità, fiorisce la speranza: con la speranza, viene il cambiamento. La mia storia è legata a un passato difficile in cui si riconoscono».
Anni ed anni dopo, tra le sbarre delle prigioni da cui entra ed esce, rivedrà anche suo padre: lui riconoscerà Raffaele, il triste primogenito del boss che aveva avuto il coraggio di andarsene, ma avrà davanti la donna che ha schiaffeggiato il machismo d’origine, la violenza della culla, Daniela. «Il distacco con la mia famiglia è totale, dentro di me è idea debellata. È un padre che non voglio portarmi dietro. Non saremo vite mai parallele. Da loro non ho accettato niente. Ho desiderato la povertà e nella povertà ho ribadito come si può essere speciali».
Speranza immane
Daniela, mille battaglie, ancora sogna di combatterne altre, per quella che chiama la sua “speranza immane”.
«Per mandare via questo odore di fascismo che sentiamo ovunque, questa puzza di storia che si ripete, la comunità Lgbtqi+ deve compattarsi non solo al suo interno, ma con tutte le minoranze sociali negate, invisibili, diverse, che politica nazionale e internazionale vogliono debellare. Per realizzare un’enorme forza di resistenza, insieme a donne, migranti, lavoratori. In un momento in cui anche gli Stati Uniti non sono sani e negano diritti, in cui l’intero mondo sembra andare indietro senza progredire, con bulli al potere che non si possono guarire: perché quello è potere economico, troppo insano, meschino e sconsiderato che non può essere cambiato, ma solo vinto. Sogno un enorme movimento di sinistra che si scaraventa contro la prevaricazione, come si faceva negli anni di Stonewall: all’epoca ha cambiato il mondo».
Lo dice la ragazza nata a due passi dal vulcano campano dalle strade di New York, allora dove tutto cominciò. E a volte è bene che la storia si ripeta.
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