Dopo la “Trilogia esplicita” uscita negli anni scorsi, l’illustratrice va in libreria con Tutte le mie cose belle sono rifatte (Feltrinelli Comics), il volume della maturità stilistica: un canto di libertà capace di svuotare le narrazioni d’odio con la sola forza del racconto
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Finzioni, disponibile sulla app di Domani e in edicola
Dire tutto, giocarsi tutto, tenendo la forbice espressiva spalancata, affinché filtri più vita possibile. Discorsi espliciti e poesia, attivismo e dettagli (che giusto qualcuno riterrà) scabrosi, auto-esposizione e senso della comunità, anamnesi medica e biografia d’artista: Josephine Yole Signorelli è tornata, e sono ancora, splendidamente, Fumettibrutti.
Un quarto volume, quello della maturità stilistica, arrivato a estendere la Trilogia esplicita degli anni scorsi (Romanzo esplicito, P. La mia adolescenza trans, Anestesia), con un titolo – Tutte le mie cose belle sono rifatte, sempre per Feltrinelli Comics – che condensa gli ingredienti essenziali di questa nuova autoconfessione tanto personale da farsi universale. Un lavoro che, dati i tempi che corrono, è una boccata d’ossigeno, un canto di libertà capace di svuotare le narrazioni d’odio con la sola forza del racconto.
Ironia e sfrontatezza, costellate, qui e là, da squarci malinconici, struggenti, quando non addirittura tragici: di corpo Fumettibrutti ha sempre parlato, ma questa volta sceglie di mettere a fuoco ogni parte/organo del suo corpo – dissidente, modificato, libero, trans – fino a renderlo centro narrativo e poetico di questa nuova tappa autobiografica.
Lo fa a pezzi e lo ricompone, cercando e cercandosi, ripercorrendo la genealogia di alterazioni che hanno il senso del ritorno a sé, della guarigione, invitando il lettore in un affastellarsi di esperienze privatissime e dunque emblematiche, dove la carne è sempre senziente, anche quando quasi tutti attorno a te pensano non sia così.
“Questa storia inizia quando mi hanno spappolato il cazzo”, dice la protagonista nel disegno d’apertura, reggendo una torcia sotto il mento, come si fa nei film quando si raccontano le storie di paura, un attimo prima di confessare che ha pensato di smettere di fare fumetti. In copertina campeggia invece uno scheletro sdraiato che prende il sole con occhiali a cuore, evidente rimando a Lolita, romanzo prediletto dall’autrice. E proprio le ossa saranno il punto di arrivo di questa vivisezione sentimentale che abbatte lo stereotipo per lasciare che sbocci, sfrenata, l’autodeterminazione.
Denti, naso, terapia ormonale, corde vocali, tette, vagina: ogni capitolo del libro esplora un desiderio e l’iter medico-chirurgico ad esso collegato, insieme ai tentennamenti, la disillusione, il trauma di anni di ricerca di sé, affronti, battaglie all’esterno e all’interno. Abbandonare il privilegio maschile, costruire – letteralmente – la femminilità, cercando di distinguere tra stereotipo e bisogno intimo: nulla è scontato e lineare, come si capisce subito seguendo le vicissitudini di una ragazzina decisa a diventare sé stessa contro tutto e tutti.
Ha molta forza Josephine, autrice e protagonista, sembra poter attraversare qualsiasi prova, abuso, lacerazione, e il suo tocco è sfrontato ma pieno di grazia, anche quando scende in dettagli perturbanti, dolorosissimi. C’è moltissima realtà in questo libro, realtà dura, brutale, ma anche molta fedeltà all’immaginazione infantile. Perché se tanti, di fronte al tema dell’identità transgender, penserebbero di avere a che fare con un discorso strettamente sessuale, Fumettibrutti svela che le identità queer, non conformi, hanno molto a che vedere con l’infanzia, checché ne dicano i retrogradi.
Soprattutto con l’infanzia, verrebbe da concludere attraversando le tavole e i testi di questo lavoro pieno di animali parlanti, eroine dei cartoni, fantasie riparatorie, grandi dive del cinema, incursioni manga. Un romanzo di formazione queer è pieno di beniamini, personaggi-feticcio, numi tutelari, alter ego: tutte facce possibili, amate, dell’identità negata, in cui il bambino sbagliato si è proiettato, immaginato, trasposto.
Signorelli è in contatto vivo con la bambina che è stata e, come spesso accade agli artisti LGBTQIA+, una volta in salvo, e padroni del proprio codice espressivo, ricostruire la parabola della propria crescita in trincea è un’esigenza imprescindibile. Perché tutto è cominciato lì, e l’infanzia queer è un’infanzia amputata, silenziata. I bambini non conformi imparano presto che i loro desideri sono sbagliati e che, se saranno apertamente sé stessi, verranno odiati, rischieranno la vita. A lungo non ci sono state le parole, a lungo non c’era nessuno a cui raccontare, chiedere aiuto: nel momento in cui si è al sicuro, interi decenni scrosciano liberi con tutti i loro alleati invisibili, le fantasticherie segrete, la voglia di dire come sono andate le cose.
Dalla Sicilia fino alla Thailandia, passando per molti luoghi, nominati e non: la protagonista di questo libro vaga, ammette tutto e non ha nessun interesse a passare per vittima perfetta, paladina o modello. La transizione raccontata da Signorelli è caotica, incidentata, iperrealista: alla transfobia si somma la mancanza di soldi, ovvero la questione di classe, ma anche le asperità dell’industria culturale, i vuoti delle istituzioni, l’inadeguatezza delle forze dell’ordine – “non ha senso, signorina, che denunci: non credono manco alle donne”, la solitudine, le tante forme della dipendenza.
Al centro del racconto c’è una ragazza che non ha quasi nulla, se non uno sguardo desideroso di vedere oltre, di planare oltre la miseria materiale e umana, farsi toccare da tutto. Una ragazza che impara a disegnarsi, che sulla pagina evoca la sé stessa che ancora non è, e poi cerca di essere all’altezza della sua invenzione, acquisendo man mano, lungo la via, consapevolezza personale e politica, un po’ di istinto di sopravvivenza ma anche moltissima voglia di spezzare l’incantesimo greve della malasorte.
Fumettibrutti spesso lo fa con l’ironia, che a volte è smascheramento del pregiudizio e a volte risata amara, come se avesse imparato a vincere sulla grettezza e sui carnefici proprio così: prendendosi gioco di loro. Dimostrando di essere più grande tutta l’intolleranza, più libera, alata. In questa storia quando le cose si mettono particolarmente male spesso compaiono delle ali: passeri, angeli, fate madrine come Dalila, l’amica mai incontrata dal vivo che supporta Josephine in una delle fasi peggiori, a cui il libro è dedicato.
L’esperienza della transizione di genere convoca persino le sante: come avviene con le bellissime pagine sulla mastoplastica e Sant’Agata. Mischiare i registri, le coordinate contemporanee e antiche, lasciare che i mondi collidano: anche così si scopre che il futuro è molto più tenero e divertente di quel che dicono i conservatori.
Tutte le mie cose belle sono rifatte mi ha riportato a una delle letture più interessanti che ho fatto di recente, Corpo, umano (con questa virgola di mezzo, che già dice tutto) dello psichiatra e psicoanalista Vittorio Lingiardi, uscito da poco con Einaudi, collezione di ritratti dei vari organi del nostro corpo che fonde sapere scientifico e umanistico, rileggendo anche al contrario il vecchio adagio di Freud secondo cui «l’anatomia è il destino».
Il destino, scrive Lingiardi, è anche l’uso che ciascuno fa della propria anatomia, e altrove aggiunge: «L’unico modo per ritrovare un corpo, anche un corpo fantasma, perduto, stanco di sé o del mondo, è raccontarlo. Il corpo ritrovato è quello raccontato». Ed è, a suo modo, un po’ la stessa conclusione a cui arriva Josephine Yole Signorelli, sul finire del memoir, portando sulla pagina l’ultimo grande intervento chirurgico in ordine temporale: «Mentre ero in Thailandia ho avuto paura che mi venisse un’altra necrosi, com’era successo in passato. Allora, per darmi la forza, ho scritto un mantra che mi ripetevo in continuazione: questo materiale è mio, è attaccato a me, perché mi appartiene. Per me queste parole spiegano come il mio corpo non sia frutto solo della chirurgia. Doveva essere così, io sono così. Sono fortunata a essere transgender».
Ed è lì che il libro si specchia in sé stesso, nella rivendicazione di un altro ordine – che non è affatto un disordine – e nella fusione di identità, liberazione politica e pratica artistica. Il corpo di Fumettibrutti ritrova sé stesso nel racconto e l’atto di riappropriazione narrativa diventa salvezza. Collettiva.
Libri come quelli di Fumettibrutti confermano che le storie, nella loro nuda potenza, sanno operare come contro-incantesimi, smascherano le retoriche chiuse e cattive di una classe politica che si gioca ormai quasi ogni giorno la carta della disumanizzazione dell’altro, dello svilimento impietoso delle differenze, al fine di aizzare le pulsioni meno consapevoli e blindare il consenso, creando capri espiatori da immolare sull’altare del ritorno all’ordine.
Le storie sono un antidoto all’automatismo dei dibattiti, del contrapporsi, del darsi battaglia: aggiustano la scena meglio della prevedibilità di slogan e motti sempre uguali, che a lungo andare svuotano il linguaggio della sua forza. Ci fanno vedere/sentire la carne, il respiro, la traiettoria di uno sguardo, di un gesto: dentro una storia è più difficile bandire, fare spallucce, infierire con la propria indifferenza censoria.
Più che identità o etichette dentro storie come questa di Josephine incontriamo persone e, anche se le piattaforme digitali ci hanno parecchio confuso su questo, le persone sono sempre altro, tutt’altro. Ribaltano la tragedia in commedia, esibiscono il dettaglio che s’imprime per sempre – le farfalle dello stomaco dentro il water, l’elefantino volante, i genitali falliti che sembrano una cicca. Portano con sé imprevisti, sconfinamenti, mostrano che disperazione e speranza possono trovarsi insieme in uno stesso cuore, ed è per questo che non smetteremo di provarci, non smetterà, Yole, di disegnare.
Tutte le mie cose belle sono rifatte è insieme una fiaba e un documento politico, un’opera giocosa e un atto d’accusa verso la società: non omette nulla, e anche così dimostra che non c’è proprio niente da temere nelle vite bollate da alcuni come deviate. Sono esperienze estreme eppure ordinarie, epiche e meschine, esaltanti e insostenibili quelle raccontate in questo libro: ognuno, leggendo, sentirà in prima persona e proverà cose diverse.
Ma il vuoto nell’immaginario collettivo, quello che permette di strumentalizzare e opprimere, verrà colmato: sarà molto più difficile dopo queste pagine tracciare linee nette tra normalità e anomalia. All’esterno, nel mondo, ma anche ognuno dentro di sé: tra i meriti di Fumettibrutti, oggi rinnovati con questo ulteriore capitolo dell’autobiografia del corpo trans che da anni va assemblando, c’è l’averci immerso in racconti in cui il giudizio su di sé e sugli altri non viene armato da tabù e divieti assoluti.
Ci sono molti più spazi di libertà di quelli che veniamo abituati a legittimarci: sono luoghi dove possiamo disegnarci a piacere, plasmando sia l’anatomia che il destino sulla base della nostra singolarità, caratteriale, emotiva, spirituale.
Luoghi in cui la biologia esiste, ma non inchioda, e le differenze hanno tutte dignità, valore, cittadinanza. Il personale è politico, come si dice in questi casi, e se nelle stagioni tristi come quella che stiamo attraversando la politica delle istituzioni sembra dimenticarsene, pronta com’è a farsi aguzzina, abbiamo almeno i fumetti maleducati a ricordarcelo.
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