- Intorno alle due e mezza di pomeriggio del 6 gennaio, la folla che scandiva «Impicchiamo Mike Pence!» era arrivata a 12 metri dal magazzino garage nel sottosuolo del Senato, dove il vicepresidente degli Stati Uniti era stato fatto evacuare.
- Cosa li ha trattenuti dallo sfondare ed entrare? Non lo si sa ancora, ma intanto si è ricostruito chi li aveva guidati fin lì.
- Un tweet del presidente Donald Trump delle 2 e 24 che avvertiva i suoi sostenitori (la notizia era stata gridata dai “Proud Boys” alla folla) che il suo vice aveva deciso di “non firmare” e che quindi si meritava di essere punito.
Intorno alle due e mezza di pomeriggio del 6 gennaio, la folla che scandiva «Impicchiamo Mike Pence!» era arrivata a 12 metri dal magazzino garage nel sottosuolo del Senato, dove il vicepresidente degli Stati Uniti era stato fatto evacuare.
Cosa li ha trattenuti dallo sfondare ed entrare? Non lo si sa ancora, ma intanto si è ricostruito chi li aveva guidati fin lì: un tweet del presidente Donald Trump delle 2 e 24 che avvertiva i suoi sostenitori (la notizia era stata gridata dai “Proud Boys” alla folla) che il suo vice aveva deciso di “non firmare” e che quindi si meritava di essere punito.
È stato il momento più drammatico della terza giornata delle “hearings” del comitato della Camera sull’insurrezione del 6 gennaio 2021, insieme alla rivelazione di altri particolari e di immagini che non si erano viste prima. I servizi segreti avevano fatto evacuare il vicepresidente, la sua famiglia e il suo piccolo seguito appena giunta notizia della prima irruzione dei manifestanti.
Li si vede, ripresi da una telecamera interna, scendere rapidamente da una scala interna all’edificio. Si è appreso poi che il primo ordine dei servizi è stato di andare «tutti nelle macchine», per preparare una via d’uscita, ma che Pence si è rifiutato: «Non voglio dargli questa soddisfazione». E che quindi sono rimasti dentro il garage per cinque ore, fino a quando i manifestanti sono usciti dall’edificio e la seduta di certificazione del voto ha potuto riprendere.
In quelle cinque ore, Pence non pare abbia contattato nessuno; ha passato il tempo riunito con la famiglia a pregare. Anche altri membri del gruppo hanno aperto la Bibbia che portavano con sé; uno ricorda che, per farsi forza, è andato a “Daniele, 6”, dove si narra del comandante in seconda dell’esercito che rifiuta di obbedire a un ordine del re, perché contrario al volere di Dio.
Come un colpo di stato
Come si era arrivati a tanto? Il comitato ha ricostruito, con una massa notevole di testimoni e documenti, gli ultimi giorni dei tentativi trumpiani di sovvertire il risultato elettorale. La storia è agghiacciante e avvincente allo stesso tempo. È verso metà dicembre che compare alla Casa Bianca l’avvocato John Eastman, modesto professore di diritto costituzionale, autore di numerosi saggi, allievo del giudice ultraconservatore della Corte suprema Clarence Thomas.
Eastman prepara un parere legale: secondo lui, il vicepresidente, in base all’interpretazione di una legge del 1887, ha il diritto di rigettare la certificazione del voto o, in subordine, di contestare il risultato di quegli stati che gli appaiono controversi.
Eastman comincia a far circolare una bozza della sua proposta all’ufficio legale di Pence, che lo rifiuta con sdegno: del tutto incostituzionale, pericoloso, e soprattutto non passerebbe mai al vaglio della Corte suprema, che lo boccerebbe nove a zero.
Ma Eastman insiste, forte dell’appoggio al progetto di Trump e di Rudolph Giuliani; Pence allora chiede il parere scritto del professor J. Michael Luttig, giudice federale in pensione e persona molto riverita dai conservatori. La sua risposta è nettissima.
«Sarebbe una cosa gravissima: immaginare che un uomo solo possa ribaltare il risultato del voto di una intera popolazione è una bestemmia dei princìpi dei nostri padri fondatori». Non solo. Creerebbe un precedente evidente: nel 2024 il nuovo perdente sarebbe autorizzato a fare altrettanto; ci sarebbe instabilità sociale, la gente scenderebbe per le strade. Un altro parere legale definisce tutta la situazione come «un colpo di stato in attesa di una giustificazione legale».
Preparare la marcia
Pence spera che il parere di Luttig (che fa avere a Trump; curiosamente, i due non si parlano di persona) sia decisivo, ma non è così. La situazione si fa sempre più tesa, tanto che, il 5 gennaio, lo staff di Pence avverte i servizi segreti della possibilità che sia necessario un loro intervento (che, in effetti, si mostrerà provvidenziale). Il 6 gennaio mattina, diverse persone, tra cui Ivanka Trump, assistono a una tempestosa telefonata tra Trump e Pence, in cui il presidente dà del “wimp” (“e peggio”, aggiunge Ivanka) al suo vice.
Poi il presidente si prepara per uscire e parlare ai suoi sostenitori. Sul palco, vicino a lui passano il generale Michael Flynn, il suo avvocato personale Rudolph Giuliani e compare anche John Eastman, vestito con un cappotto di cammello e un cappellaccio da cowboy.
I toni sono ancora “possibilisti”, Trump ripete più volte che Pence può farlo, che Pence lo farà, che Pence deve solamente dare prova di un po’ di coraggio… e poi invita la folla a marciare sul Campidoglio e annuncia che anche lui sarà della partita (invece non lo fa e torna alla Casa Bianca).
Dentro l’aula
Dentro l’aula intanto va in scena l’altra parte del piano. Diversi senatori, tra cui il potente Ted Cruz del Texas, fanno presente al vicepresidente il “malessere” dell’opinione pubblica di fronte ai dati elettorali contrastanti e alle numerose denunce di brogli. Quindi chiede di rimandare almeno di una decina di giorni la proclamazione del vincitore.
In quei dieci giorni, dice Cruz, si potrebbe nominare una “commissione indipendente” che dia un parere finale. La proposta è ovviamente assurda e non può essere accettata. Intanto i manifestanti premono sulle porte d’ingresso e finalmente, intorno all’una e mezza, sfondano porte e finestre. Deputati e senatori vengono fatti sgombrare. Alle 2 e 24 il famoso tweet di Trump.
Protagonisti
A fare la parte del leone nell’ultima seduta del comitato sull’insurrezione è il professor Luttig, che assomiglia ad uno Spencer Tracy al suo meglio. Parla lentamente e in maniera solenne. È lui che mette in guardia l’America sui rischi che si corrono alle prossime elezioni. E poi, Greg Jacobs, consigliere giuridico di Pence, giovanile, molto spigliato e molto concreto. È lui che racconta delle preghiere, della Bibbia e del rifiuto di Pence di essere messo in salvo fuori dall’edificio.
Si è visto anche l’avvocato Eastman, l’autore del complotto. È stata resa nota una sua mail in cui, dopo il 6 gennaio, chiede la grazia presidenziale (che però Trump non gli ha dato) e il suo comportamento quando viene interrogato dal comitato. Si appella – per cento volte! – al Quinto emendamento, quello che viene usato dai boss nei processi di mafia.
Tirare la volata
Non presente, ma vero protagonista, è stato comunque Mike Pence, presentato dal comitato con enorme rispetto e dipinto come un eroe guidato dalla fede che ha salvato la democrazia americana. E questo naturalmente lo proietta verso il futuro.
Pence è finora sempre stato silenzioso, non partecipa più alla vita politica del partito repubblicano, se non con sporadiche conferenze. Ma ora il comitato sembra lanciarlo verso una maggiore presenza. Certo, è un conservatore bigotto. E ai limiti del surreale: il suo credo, per esempio, gli impone di non andare in un luogo pubblico senza essere accompagnato dalla moglie.
E se fosse lui a candidarsi per il 2024 contro Trump? La sua base elettorale – il mondo evangelico – è pur sempre il blocco di voti più importante del partito… Certo è che il comitato gli ha tirato una bella volata e per la prima volta è sembrato poter incidere e offrire un’alternativa al partito. Indicando come rischio reale per la democrazia un’eventuale candidatura di Trump, le menti giuridiche dei repubblicani potrebbero pensarci…
L’anniversario del Watergate
I commenti intanto segnalano una interessante coincidenza: esattamente cinquant’anni fa, con la notizia di un furto in un albergo di Washington, cominciava il famoso “scandalo Watergate” che tutti ricordano. È stata la prima (e unica volta) che un presidente (Richard Nixon) è stato costretto alle dimissioni e al ritiro dalla vita politica per la pressione dell’opinione pubblica.
Non è stata solo e tanto la “mitica” prestazione del Washington Post, ma è stato il frutto delle “hearings” del Senato sulle responsabilità del presidente nel giro di illegalità, corruzione e intimidazione che avevano caratterizzato la sua campagna elettorale, peraltro vincente.
Altri tempi! All’epoca ci sono state undici settimane di interrogatori trasmessi in diretta sui tre principali canali televisivi, per un totale di 237 ore; si è calcolato che una famiglia americana media abbia visto almeno trenta ore di programma, la più grande soap opera politica di tutti i tempi. Calcolando che il 2024 è la data a cui si guarda, “il colpo di stato” del 6 gennaio si appresta a battere il record.
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