Dopo la fuga della premier in India, il movimento studentesco vuole evitare un’altra dittatura. Il coinvolgimento della società civile, le pressioni sulla comunità internazionale, la crescita. E la scelta dell’economista inventore del microcredito per il governo ad interim
Lunedì 5 agosto la stretta della premier Sheikh Hasina (76 anni) sulla democrazia bangladese si è conclusa nel più scenografico dei modi. Dopo quindici anni consecutivi al governo, Hasina e la sorella Rehana sono scappate da Dhaka a bordo di un elicottero per trovare rifugio in India, mentre una folla di manifestanti sfondava all’interno della residenza della ormai ex premier. Il principale quotidiano bangladese, Prothom Alo, ha pubblicato una cronaca drammatica delle ultime ore di Hasina in Bangladesh, restituendo il ritratto di una leader ubriacata da manie di onnipotenza che l’hanno completamente scollata dalla realtà.
Fino all’ultimo, andando contro i consigli dei suoi più stretti collaboratori, Hasina ha ordinato alla polizia di usare la «forza letale» contro gli studenti e le studentesse e si è lamentata che l’esercito, avendo ricevuto lo stesso ordine, si sia rifiutato di obbedire.
Fuori dal palazzo, centinaia di migliaia di studentesse e studenti universitari hanno continuato a sfidare la violenza delle forze dell’ordine per il trentaseiesimo giorno consecutivo, tenendo fede all’obiettivo ultimo di una protesta che era nata contro le quote fisse nei posti di lavoro assegnati dalla pubblica amministrazione ma che presto si era trasformata in una lotta a difesa della democrazia del paese.
In questo senso il 5 agosto 2024 entra di diritto nel calendario della storia del Bangladesh e, per la società civile che ha seguito il movimento universitario nella protesta, potrebbe segnare il primo giorno di una rinascita democratica pagata a carissimo prezzo: mentre scriviamo, il bilancio dei morti ha superato quota quattrocento, a cui si aggiungono decine di migliaia di feriti. Ora, con una leader antidemocratica ospite temporanea in una base militare a pochi chilometri da New Delhi in attesa di asilo politico a Londra, la società bangladese proverà a ricostruire ciò che Hasina ha distrutto in una gestione del potere scellerata.
Il ruolo di Yunus
Dalla presidenza bangladese sono già arrivati alcuni segnali incoraggianti: è stata disposta la scarcerazione di Khaleda Zia (78 anni), la leader del principale partito di opposizione Bangladesh Nationalist Party (Bnp), che aveva boicottato le ultime elezioni; sono stati liberati prigionieri politici, attivisti e oppositori del regime Hasina; è stato sciolto il parlamento frutto della tornata elettorale di gennaio, che aveva registrato una misera affluenza del 42 per cento. L’obiettivo è quello di incoraggiare una pace sociale che possa facilitare le trattative per la formazione di un governo ad interim in grado di riportare l’ordine nel paese.
Il movimento studentesco, che non ha legami chiari con nessuna parte politica, ha dimostrato grande acume contattando direttamente Mohammad Yunus (84 anni) – economista, inventore del microcredito, per cui nel 2006 vinse il premio Nobel per la pace – che in un primo momento ha accettato di candidarsi per la carica di «chief advisor» del nuovo governo.
Nella serata di martedì 6 agosto, però, Yunus è stato nominato capo del governo ad interim del Bangladesh dal presidente Mohammed Shahabuddin. La decisione è stata presa durante un incontro tra il presidente Shahabuddin e i coordinatori del Movimento studentesco. All'incontro erano presenti anche i capi delle tre forze armate.
Si tratta di una delle personalità più autorevoli in assoluto nel panorama bangladese, per anni vittima di persecuzioni giudiziarie orchestrate proprio da Hasina, che permetterebbe al Bangladesh di scongiurare la minaccia di un governo militare. Tante volte nella storia del paese l’esercito ha imposto periodi di dittatura militare, ipotesi che il movimento studentesco sta provando a escludere dal tavolo delle trattative presieduto dal capo delle forze armate Waker Uz Zaman, a cui, in queste ore, siederanno i rappresentanti di tutti i partiti. L’imperativo rimane quello di fare in fretta e rimettere al più presto in carreggiata un’economia salutata dalla comunità internazionale come un piccolo miracolo di crescita, ma che non è riuscita ad alleviare le disparità economiche e le ristrettezze in cui gran parte degli oltre 171 milioni di bangladesi è costretta a vivere.
La crescita del Pil anche quest’anno dovrebbe attestarsi sopra al 6 per cento, ma l’inflazione e la crisi delle riserve di valuta estera sono problemi che il governo Hasina non ha mai risolto, insistendo su progetti infrastrutturali enormi finanziati dalla spesa pubblica attraverso prestiti molto onerosi: prima delle proteste, Dhaka stava trattando con Asian Development Bank per un prestito da 20,8 miliardi di dollari su quattro anni, dopo aver aperto a gennaio una nuova linea di credito da 4,7 miliardi di dollari col Fondo monetario internazionale. Dollari che servono per pagare le importazioni e che però, prima o poi, andranno restituiti.
La diaspora
L’altra fonte vitale di valuta estera per le casse di Dhaka continuano a essere le rimesse dall’estero, alimentate da una diaspora bangladese che conta oltre 10 milioni di lavoratrici e lavoratori, di cui oltre 150mila in Italia. Lo scorso anno hanno rispedito a casa ben 24 miliardi di dollari. Infine, occorre far ripartire la macchina del tessile che ha fatto del Bangladesh una delle destinazioni principali degli investimenti occidentali nel settore del fast fashion, spesso chiudendo più di un occhio su condizioni di sicurezza sul lavoro gravemente insufficienti e su remunerazioni da fame contro cui le sigle sindacali locali si battono con risultati alterni.
Il caos in cui è franato il paese da gennaio non ha fatto altro che minare la fiducia di molti partner internazionali.
È il caso dell’Unione europea, che da sola alimenta oltre il 20 per cento degli scambi del Bangladesh e che pochi giorni fa ha sospeso le trattative per un nuovo accordo di cooperazione e investimenti.
E stabilità è quello che chiedono anche le superpotenze mondiali che col Bangladesh di Hasina hanno sempre intrattenuto rapporti egregi: la Cina, che ha coinvolto Dhaka nella sua Via della seta; gli Stati Uniti, mai sufficientemente indignati dalla repressione violenta di Hasina e, recentemente, in ben altre faccende affaccendati; e l’India di Modi, che con Hasina condivide una visione molto fantasiosa del concetto di democrazia e che, mentre le offre uno scalo sicuro in direzione Regno Unito, è pronta a estendere una nuova amicizia a qualsiasi prossimo governo bangladese.
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