Domani a Washington si incontreranno, probabilmente per l’ultima volta, un presidente che si è preso applausi per essersi ritirato dalla corsa a un secondo mandato e un premier che da anni si prende fischi per la sua riluttanza a lasciare la carica. Joe Biden e Benjamin Netanyahu non si sono mai amati e gli screzi sono costati al secondo, sarcasticamente definito «uno dei leader del partito repubblicano americano», una valanga di critiche per aver messo a repentaglio l’amicizia storica tra Stati Uniti e Israele.

Spera nell’elezione di Donald Trump per ripristinare la corrispondenza di amorosi sensi, ma per almeno altri sei mesi è con il vecchio Joe che dovrà fare i conti. E non è poi detto che non gli capiti un’interlocutrice ancora più ostica come Kamala Harris (vedrà anche lei) che ha buoni rapporti con la comunità ebraica statunitense ma non ha mai mancato di sottolineare la sua vicinanza al popolo palestinese.

Non è il solito viaggio

Le difficoltà del viaggio in una terra in passato sempre solidale senza remore sono la cartina di tornasole del progressivo isolamento internazionale di Netanyahu a causa della sconsiderata gestione della reazione agli attacchi di Hamas del 7 ottobre, sicuramente legittima ma non nei modi, con il numero delle vittime che si avvicina a 40mila, la stragrande maggioranza civili, e l’obiettivo della distruzione completa dell’organizzazione terroristica ben lungi dall’essere raggiunto.

Senza contare che, a dispetto degli annunci, mai si è trovata una soluzione per gli ostaggi dopo nove mesi e mezzo di cattività. Pochissimi i liberati con i blitz, diversi i morti, compresi in una cifra che oscilla tra i 70 e i 120 quelli ancora prigionieri. Tanto che, esasperati, i parenti degli scomparsi hanno inscenato manifestazioni di protesta anche all’aeroporto di Tel Aviv, prima della partenza del corteo ufficiale.

Molto criticato in patria anche prima del 7 ottobre per le inchieste sulla corruzione che lo coinvolgono e per la legge che pone di fatto il potere giudiziario sotto il controllo dell’esecutivo, Netanyahu poteva contrapporre all’epoca i suoi successi. Si faceva forte degli Accordi di Abramo sul punto di essere firmati anche dall’Arabia Saudita, dei lunghi anni di quiete, di essere l’unico premier a non avere mai combattuto una guerra. Tutte prerogative che si sono dissolte. Accordi, al minimo congelati, sicurezza dello Stato messa a repentaglio a causa dei tre fronti che si sono aperti con i nemici che minacciano di poter colpire ogni lembo dello Stato di Israele.

La carneficina di Gaza, con la lunga sequela di massacri che hanno spesso coinvolto donne e bambini, ha scatenato una solidarietà islamista e risvegliato conflitti nuovi o in sonno. È, quest’ultimo, il caso del Libano dove le scaramucce di confine con Hezbollah, il partito di Allah, si sono infittite e minacciano di sfociare in una guerra aperta. Mentre dallo Yemen sotto il controllo degli Houthi, piovono droni e missili che hanno già raggiunto anche Tel Aviv oltre a Eilat, la località sul mar Rosso.

Regione in fiamme

Gaza, Libano, Yemen. Una manovra a tenaglia orchestrata dallo stesso mandante, l’Iran degli ayatollah, che ha mosso i propri alleati e che per ora evita il confronto diretto dopo lo scambio di attacchi reciproci dell’aprile scorso che sembravano preludere alla resa dei conti tra le due potenze della regione.

Non bastasse, non c’è pace nemmeno in Cisgiordania, una terra che spetta ai palestinesi secondo la risoluzione delle Nazioni unite e dove dovrebbe nascere il loro Stato, ma dove continua la politica delle colonie israeliane e anzi sono state approvate circa 24mila nuove unità abitative dal 2002 a oggi. Settimana scorsa la Corte internazionale di giustizia, il più importante tribunale delle Nazioni unite, ha definito illegali le colonie. Scatenando la reazione sprezzante di Netanyahu: «Sentenza assurda, non possiamo essere conquistatori della nostra terra».

In Cisgiordania negli ultimi mesi sono stati uccisi circa 500 palestinesi tra cui 140 bambini. Israele, che dopo la Seconda Intifada (2000-2005) aveva conosciuto un lungo periodo di sostanziale tranquillità e puntava a essere finalmente uno Stato “normale” dai buoni rapporti con i vicini, è tornato l’epicentro del Medio Oriente infiammato proprio al tramonto del lungo regno di Netanyahu la cui politica si può definire in un solo modo: fallimentare.

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