Siamo al punto di svolta tra Stati Uniti e Israele? Lo farebbe pensare l’intervista alla Cnn di Biden, che annuncia lo stop alle forniture di armi se Netanyahu darà il via libera all’intervento militare a Rafah. Naturalmente, non verrebbe meno la garanzia di sicurezza americana: Iron Dome o altri sistemi di armamento che consentono a Israele di difendersi da attacchi esterni, come quelli “testati” recentemente dall’Iran, sono fuori discussione. Così come la tenuta dell’alleanza: vincolo, questo, insieme politico, militare ed etico, che impedisce il taglio gordiano dei nodi che avvelenano i rapporti tra i leader dei due paesi.

Le parole del presidente Usa confermano che i rapporti sono deteriorati, sino a diventare “relazioni pericolose”. Non si possono rompere, ma sono “tossiche” per entrambi. I due non si amano, in politica non è necessario, ma è divenuto complicato anche marciare insieme: la comunanza di interessi non è più sufficiente. Anzi, le scelte sul terreno incrinano quotidianamente il legame: gli Usa non vogliono la guerra larga con l’Iran e il Libano, e nemmeno quella lunga a Gaza, auspicata da Netanyahu e dalla destra estrema per continuare la politica del fatto compiuto e non far venire meno lo stato di eccezione che si nutre, oltre che dell’occupazione, dell’emergenza bellica. “Attrezzi” capaci di inchiavardare la porta dalla quale, dopo il drammatico fallimento del 7 ottobre, sarebbero dovuti uscire di scena Bibi e i suoi alleati.

La trama di rapporti

Ma non si tratta, e questo è il punto, solo di idiosincrasie personali, quanto di divaricazioni strategiche. La linea oltranzista di Israele mette a rischio l’architettura della politica a stelle e strisce in Medio Oriente. Per quanto Washington sia concentrata sul Pacifico e sul redivivo potere ctonio del nazionalismo granderusso, non può disinteressarsi a quanto accade in quella calda area. La costruzione di una stabile alleanza tra paesi arabi sunniti e Israele, capace di garantire sicurezza e relativi interessi americani nella regione, non può proseguire se quest’ultimo non muta l’atteggiamento nei confronti della rediviva questione palestinese. Nessuno stato arabo firmerebbe vecchi o nuovi Accordi di Abramo senza la garanzia di una soluzione accettabile sul punto.

Nei sette mesi di guerra gli Usa, che hanno sostenuto il diritto di Israele a reagire e a eliminare Hamas, hanno cercato di incamminare Bibi su questa strada, ma era una missione impossibile. Netanyahu ha sempre avuto una sola stella polare (per l’estrema destra messianica una sola “stella della redenzione”): fare da soli, costringere gli altri, fosse anche il principale alleato, a seguire, certo che, alla fine, il patto non si sarebbe rotto. Partita sfociata nell’ineluttabile destino del mors tua, vita mea. Se Biden lascia fare, rischia di non essere eletto; se Bibi cede, la destra estrema che, come lui, invoca la distruzione totale di Hamas, di cui l’operazione a Rafah dovrebbe esserne il “logico” e terminale corollario, lo manda a casa.

Un “dilemma tragico” cristallizzato sin qui nella forma politica dell’indecisione. Biden sembra ora cambiare passo. E pronuncia parole che violano il tabù, svelano l’eccesso di quanto non poteva, almeno ufficialmente, essere detto. L’inquilino della Casa Bianca riconosce che “le bombe americane sono state impiegate per uccidere civili a Gaza”. Non si tratta, solo, dell’ammissione di un indicibile già evidente a tutti: è di più. E’ fare propria l’accusa che gli rivolgono, dentro e fuori il partito, i suoi critici di sinistra, così come i realisti di apparato – Nancy Pelosi docet – che temono di perdere le elezioni a causa di Bibi; o gli studenti dei campus in rivolta e le fasce di elettorato d’opinione o di matrice etnoreligiosa che alimentano la constituency elettorale dem.

Quella che rimbalza dal Wisconsin è un’onda sonora che mette fine allo scacco dell’espressione e investe, rumorosamente, la politica interna e estera americana.

Ripercussioni elettorali

Basterà? O, come continuano a ritenere i critici più scettici di Biden, è comunque “too little, too late”, troppo poco, troppo tardi? I margini di manovra americani, anche temporali, sono stretti: che farà la Casa Bianca se Israele scatenerà la battaglia a Rafah o, secondo i piani, punterà ad allungare la guerra nella Striscia, o l’allargherà al Libano di Hezbollah? Magari nell’attesa della vittoria di Trump, che agita la tesi “Biden alleato di Hamas”? O se Bibi, magari dopo aver esibito la testa di Sinwar – obiettivo sul quale lo stesso Biden lo ha invitato a concentrarsi, ma solo con operazioni mirate come quelle che hanno condotto all’eliminazione di Bin Laden – trionfo che gli consentirebbe di attenuare temporaneamente la tragedia degli ostaggi, occupasse stabilmente Gaza ripetendo, ancora una volta, quello che il presidente Usa ritiene l’errore capitale compiuto in Afghanistan e Iraq?

Resterebbe l’uscita dall’esecutivo di Benny Gantz, che sondaggi danno come favorito alle urne e che la Casa Bianca vorrebbe come interlocutore, ma Bibi avrebbe comunque i numeri e cercherebbe di tenere duro sino a novembre.

Eventuali elezioni anticipate non sarebbero facilmente compatibili con una complicata situazione bellica sul campo: lo stesso leader del Likud la ritiene un’arma scarica se non si materializzasse nei prossimi giorni. Dopo il discorso di Biden, l’ambasciatore israeliano all’Onu ha rimarcato che le pressioni su Israele sono gradite soprattutto ai suoi nemici e che i molti ebrei americani che hanno votato Biden sono oggi «esitanti» davanti alla sua linea.

Il ministro e leader di estrema destra Ben Gvir ha detto che «Hamas ama il presidente», mentre Netanyahu ha affermato che «se Israele sarà costretto a restare da solo, resterà da solo», lasciando filtrare che le parole del presidente americano seppelliscono anche l’eventuale accordo sugli ostaggi. La sfida continua.

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