Il blitz israeliano per prendere il controllo del valico di Rafah potrebbe essere in relazione con quanto avverrà dall’altra parte del confine, in territorio egiziano, a 15 km da quella frontiera, lì dove sarà edificata una nuova città. A costruirla sarà una mafia beduina che lavora con l’esercito egiziano e sta facendo una fortuna trasportando facoltosi palestinesi che cercano scampo in Egitto (la salvezza costa 20mila dollari a persona).

Il capo della cosca, Ibrahim al Oriani – imprenditore nei trasporti e nelle costruzioni, nonché al vertice di una milizia tribale che è alleata dei generali egiziani – ha annunciato che i primi ad abitare la nuova città saranno parenti di soldati “martirizzati” nella guerra del Sinai contro bande islamiste. Ma è probabile che la città eserciterà un’attrazione fortissima per la popolazione della Striscia, dato che l’alternativa sarà restare accampata per anni su distese di macerie che celano cadaveri, bombe inesplose e sostanze tossiche liberate dalle esplosioni. La “soluzione Sinai” richiede però che la frontiera tra Gaza ed Egitto non sia più sotto il controllo di Hamas, che non permetterebbe un esodo e che magari aiuterebbe i suoi guerrieri a mettersi in salvo.

A rafforzare il sospetto di una “soluzione Sinai” concorre la nuova legge egiziana sul diritto di proprietà nei territori desertici, varata in febbraio. Modificando la legislazione precedente, autorizza gli stranieri a possedere terre o case nel Sinai, senza limiti a proprietà e investimenti. Se dunque le monarchie arabe volessero mettere i soldi in progetti urbanistici che non sono nelle possibilità del regime egiziano, indebitatissimo, ora potrebbero.

Nel parlamento del Cairo, sempre ossequioso con al Sisi, alcuni tuttavia hanno mosso un‘obiezione patriottica o sovranista: secondo il deputato Atef Maghawry, la normativa «può portare in poco tempo alla nascita di intere città palestinesi» su suolo egiziano. A proporre questa soluzione è proprio il governo israeliano, spiega Maghawry al giornale online Mada Masr.

Avrebbe fatto presente di poter mettere in campo grandi investitori. In alternativa, aggiunge il deputato, avrebbe offerto 20mila dollari per ogni palestinese cui l’Egitto desse un appartamento, tra le migliaia di abitazioni disabitate prodotte dalla crisi economica.

Il problema dei tribunali

Insomma per al Sisi e i suoi rapaci generali sarebbe un affare. E Netanyahu riuscirebbe a spopolare la Striscia.

Tanto più in fretta perché tanti palestinesi tenterebbero di salpare per l’Europa con imbarcazioni di fortuna dal pontile che gli americani stanno completando per sbarcare aiuti. Una volta emigrate decine di migliaia di famiglie, la Striscia diventerebbe la tonnara in cui l’esercito israeliano potrebbe finire Hamas, o comunque la gioventù palestinese ribelle. «Quando la popolazione fosse evacuata», ha scritto di recente Giora Eiland, dal 2004 al 2006 capo del Consiglio di sicurezza israeliano, «e gli unici che restassero fossero di Hamas, e quando acqua e cibo finissero (…) allora a un certo punto Hamas verrebbe completamente distrutta, o dovrebbe arrendersi, oppure andarsene da Gaza».

Eiland era stato il primo a proporre la soluzione Sinai, già vent’anni fa. L’idea è riapparsa in un documento riservato redatto dal ministro israeliano dell’Intelligence Gila Gamliel e apparso sui giornali tre settimane dopo il pogrom di Hamas/Jihad, probabilmente un balon d’essai lanciato per verificare le reazioni dei governi occidentali (atarassici, al solito).

Il testo propone tra l’altro la costruzione nel Sinai di città per i palestinesi di Gaza, e una fascia di sicurezza al confine egiziano per impedire che costoro possano tornare indietro. Lo scorso autunno al Sisi ha più volte ripetuto di essere totalmente contrario alla deportazione di quella popolazione in Egitto. Ma da allora ministri israeliani hanno suggerito che l’esodo potrebbe essere “volontario”, e magari incentivato con offerte allettanti. Un’emigrazione come tante. O l’esito intenzionale di una “pulizia etnica”?

Il problema del gabinetto di guerra israeliano è la giustizia internazionale. Incalzando Netanyahu e i suoi generali a porre fine agli “acts of genocide” a Gaza, la Corte di giustizia internazionale (Icj) ha di fatto ordinato di rinunciare non a un olocausto, ma a una “pulizia etnica”.

Per quanto sia spesso tradotto sommariamente come “genocidio”, il crimine di “genocide” è utilizzato dalla Corte nei casi in cui una popolazione è espulsa dal suo territorio mediante violenza e terrore (per esempio l’espulsione di Rohingya dalla Birmania, per la quale l’Icj ha inquisito il regime di Rangoon). Se dunque la guerra di Gaza finisse con l’esodo di gran parte della popolazione, sarebbe difficile negare che quello fosse il progetto iniziale. Israele afferma che i suoi bombardamenti “non intelligenti” e i ripetuti urbicidi sono stati obbligati dal fatto che Hamas si nasconde dentro un’imponente rete di tunnel sotterranei (ogni due case una ha sotto il pavimento un tunnel, sparacchiano funzionari israeliani).

Non riescono a fingere di crederlo neppure i più timorosi tra i governi occidentali, per i quali invece Israele ha ecceduto nell’esercitare il sacrosanto diritto a difendersi. Ma gli “eccessi”, per essere tali, dovrebbero restare isolati e sporadici. Se invece sono sistemici, non possono che rimandare a una strategia.

A dare alle condotte militari israeliane il nome che meritano potrebbe essere adesso anche la Corte penale internazionale (Icc), qualora emettesse ordini di cattura contro il vertice israeliano. Secondo diversi opinionisti israeliani, a ispirare i mandati d’arresto sarebbe Biden, che «finalmente ha trovato uno strumento efficace per (premere su) Netanyahu», titola Haaretz. E un altro quotidiano di peso, Yedioth, invece furente: «Biden ora può accettare di richiamare i cani dell’Icc in cambio di concessioni da Gerusalemme, quali trattenersi dal lanciare l’attacco su Rafah e un prolungato cessate-il-fuoco».

Questa idea che i massimi uffici della giustizia internazionale siano agli ordini della Casa Bianca è rozza, ma in Europa convince molta destra e parte della sinistra. In realtà la pronuncia dell’Icj sugli “acts of genocide” fu presa contro gli auspici dei maggiori occidentali, e gli ordini di cattura dell’Icc presto o tardi saranno emessi: ma è probabile che saggi calcoli politici (cosa è meglio per frenare Israele?) incideranno sulla tempistica e forse anche sulla formulazione dei capi d’accusa.

Elezioni

In ogni caso Icc, Icj e alcune autorevoli organizzazioni per i diritti umani come l’americana Hrw stanno svolgendo un compito nuovo, storico: offrono alle opinioni pubbliche strumenti per definire con chiarezza le azioni degli stati impegnati in conflitti interni e internazionali.

In un certo senso stanno costruendo un lessico universale, e liberale, a disposizione di chiunque sia mosso dalla volontà di capire. Il processo è spesso contraddittorio, incerto, esposto a malintesi, reversibile: non di meno segnala l’esistenza di una civiltà umana. Di un sistema di valori e di comportamenti in cui si riconoscono tutte le culture, quali che siano le rispettive storie, vocazioni, religioni, tradizioni. E le conseguenze sono rilevanti. Se un tribunale Onu formato dai giudici di 17 paesi e presieduto da un’americana non avesse bollato come “acts of genocide” la guerra israeliana a Gaza, probabilmente i soldati israeliani sarebbero già a Rafah e le proteste studentesche non sarebbero così contagiose. Ma il termine “pulizia etnica” in occidente appartiene ancora alla categoria degli interdetti, malgrado sia la traduzione giuridicamente più corretta di “acts of genocide”.

Lo evita perfino il New York Times, che pure pubblica commenti che mai potrebbero apparire sulla grande stampa italiana, perché ritenuti “estremisti”. Nel dibattito elettorale è rarissimo sentir parlare di “pulizia etnica”, e chi si avventura (per esempio il solitario Marco Tarquinio, candidato del Pd) rischia le reazioni rabbiose dei cosiddetti “moderati” di destra o di sinistra. Ma tanta prudenza non aiuta a conquistare lettori ed elettori nelle fasce giovanili, dove, con la tipica sventatezza di quell’età, sempre più spesso ci si chiede: ma perché diavolo dovrei votare queste mezzecalze, leggere questi cicisbei, credere a questi tromboni?

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