Il dibattito tra Joe Biden e Donald Trump è andato nel modo temuto dal team del presidente in carica, con una performance catastrofica per l’attuale inquilino della Casa Bianca, con diversi inciampi e momenti di congelamento dell’espressione facciale, materiale che varrà oro sui social della campagna di Donald Trump. Ma non solo. Lo speaker repubblicano della Camera, Mike Johnson, ha preso la palla al balzo e ha detto che il governo dovrebbe discutere l’ipotesi di invocare il 25esimo emendamento, che consente di rimuovere un presidente per incapacità, fisica o mentale. Per farlo serve però la maggioranza dei voti dei suoi ministri.

E allora ecco farsi strada un’idea dirompente fino a ieri: dire al presidente di farsi da parte. Tecnicamente è ancora possibile, del resto è soltanto il candidato presunto, avendo raccolto i delegati necessari per ricevere la nomination ma non il sigillo dell’ufficialità.

Dalle parti dello staff del presidente ovviamente si respinge con decisione l’ipotesi. Interpellato dal portale specializzato in questioni politiche The Hill, il portavoce della campagna elettorale di Biden Seth Schuster ha detto con decisione che «ovviamente non ci sarà alcun ritiro».

Però sta prendendo quota una vera campagna di pressione sulla Casa Bianca che mira a contattare sia la First Lady Jill Biden che l’ex presidente Barack Obama o il leader di maggioranza al Senato Chuck Schumer. Qualora questo sforzo andasse in porto, si aprirebbe un’ipotesi mai avuta nel tempo moderno: una convention aperta.

Le divisioni

Oggi a dividere i dem potrebbe essere la questione di Gaza e difficilmente si arriverebbe rapidamente a un punto di equilibrio tra i delegati fino a un momento prima fedeli a Biden che, secondo statuto, dovrebbero fare una scelta in linea con quella fatta in precedenza dagli elettori.

Una formula astrusa che di fatto vuole dire che avrebbero mano libera? Quali sarebbero allora le scelte possibili? La più ovvia sarebbe in assoluta continuità: la vicepresidente Kamala Harris, ma sorgerebbero problemi di altro tipo.

Per quanto possa apparire incredibile, è più impopolare di Biden e non è riuscita a ritagliarsi un profilo suo personale all’interno dell’amministrazione, oltreché essere nota già per non avere chiare le priorità di un candidato. Qualora si decidesse per la discontinuità allora, si andrebbe lontano da Washington, andando a nominare un governatore come quello della California Gavin Newsom.

Cinquantaseienne, telegenico e abbastanza amato dal cotè progressista nazionale (ma non da quello del Golden State), avrebbe contro di lui delle posizioni molto lontane da quell’America profonda dove si vincono le elezioni, essendo da sempre un entusiasta assoluto della transizione ecologica, non dovendo difendere un settore manifatturiero in declino come gli omologhi di altri stati.

C’è poi l’ostilità da parte dello staff della Casa Bianca che da mesi sospetta che stia conducendo una campagna-ombra per le presidenziali, andando a fare comizi a sostegni di candidati democratici anche al di fuori dei confini del suo stato.

Si potrebbe andare ancora oltre e scegliere dei completi outsider sempre nelle fila dei capi di governo statali: in Illinois c’è il magnate alberghiero J.B. Pritzker che ha inserito nella Costituzione dello stato il diritto di aborto ma anche l’uso ricreativo della marijuana.

Ha un vantaggio: potrebbe attingere al suo patrimonio personale di 3,5 miliardi di dollari per recuperare il divario con Donald Trump. Papabile anche una candidatura di Gretchen Whitmer, alla guida del Michigan dal 2018.

Un profilo più pragmatico ma non troppo centrista, che può vantare una modalità di confronto dura contro i trumpiani dello stato e anche la capacità di aver riportato sotto il controllo dei dem uno stato della Rust Belt, un territorio dunque dove l’industria tradizionale è decaduta sotto i colpi della modernità e dove Trump ha vinto nel 2016. Sia Pritzker che Whitmer però hanno un handicap simile: sono entrambi virtualmente sconosciuti al grande pubblico. Di sicuro però si può dire una cosa: si deve considerare come assolutamente priva di fondamento l’ipotesi che ci sia una discesa in campo di Michelle Obama.

L’ex First Lady ha sempre detto di non avere alcuna intenzione di fare attivamente politica memore degli attacchi che il marito ha dovuto subire durante gli otto anni del suo mandato. Inoltre, avrebbe le debolezze di Barack, che in alcune zone del paese lontane dai centri urbani risulta molto più impopolare dello stesso Biden. Decisivi in ogni caso saranno gli effetti sulle donazioni: se si prosciugheranno, la possibilità del passo indietro del presidente si farebbe sempre più concreta.

La sentenza su Capitol Hill

Inoltre è arrivata anche una notizia dirompente che aggiunge sconforto al panico dei dem: una sentenza della Corte Suprema, votata da cinque giudici conservatori più la liberal Ketanji Brown Jackson, ritiene che le incriminazioni varate dai procuratori statali per circa 1400 manifestanti che hanno fatto irruzione a Capitol Hill il 6 gennaio 2021, qualora fossero basate sull’accusa di “ostruzione” che riguarda l’impedimento a un pubblico ufficiale di svolgere le proprie funzioni, sono da vedere in senso restrittivo.

In pratica: si possono incriminare solo quelle persone che abbiano fisicamente ostacolato il processo elettorale e non chi ne aveva l’intenzione. Donald Trump, che è incriminato anche per questo in uno dei tre processi che ancora devono iniziare, può sorridere ulteriormente.

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