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Washnigton, alla prese con un aumento incredibile dell'inflazione del 7,5 per cento, paragonabile solo a quella dei tempi del presidente repubblicano Ronald Reagan e del governatore della Fed, Paul Volcker negli anni 80, alza i toni contro la Russia sulla questione ucraina.
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Joe Biden sta cercando di ripristinare l’accordo per il blocco del programma atomico iraniano, in cambio dell’eliminazione delle sanzioni economiche. Un effetto strategico dell’accordo con Teheran sarebbe il rientro dell’export di greggio iraniano nel mercato (oggi gli ayatollah vendono praticamente solo ai cinesi) facendo calare il prezzo del petrolio ed espandere l’offerta.
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Tanta fretta, vista l’ostilità di tutti i deputati e senatori repubblicani, non si spiega se non con una pressante esigenza di ridurre le pressioni inflazionistiche interne.
Washnigton,alla prese con un aumento incredibile dell’inflazione del 7,5 per cento paragonabile solo a quella dei tempi del presidente repubblicano Ronald Reagan e del governatore della Fed, Paul Volcker negli anni 80, alza i toni contro la Russia sulla questione ucraina. Il presidente statunitense, Joe Biden, in un’intervista televisiva ha invitato gli americani a lasciare immediatamente l’Ucraina. «I cittadini americani devono partire ora» dall’Ucraina, ha spiegato Biden intervistato dal conduttore Lester Holt della rete televisiva Nbc.
«Non è come avere trattare con un’organizzazione terrorista, abbiamo a che fare con uno dei più grandi eserciti del mondo, è una esperienza molto differente e le cose potrebbero impazzire velocemente», ha ammonito poi riferendosi alla minaccia russa, mentre l’ambasciata Usa a Kiev lanciava un’allerta analogo.
Il pessimismo di Biden potrebbe avere ragioni specifiche relative al dossier ucraino, dove il presidente americano ha rinnovato che nessun militare americano interverrà in caso di attacco russo, ma c'è anche il dubbio che la Casa Bianca stia cercando di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dai problemi interni in attesa di qualche altro clamoroso accordo su un altro fronte aperto come ad esempio con gli ayatollah iraniani.
La fiammata dell’inflazione negli Usa
Vola l’inflazione negli Stati Uniti a gennaio, cosa che potrebbe alimentare le speculazioni tra gli analisti per un rialzo di 50 punti base dei tassi di interesse da parte della Fed, la banca centrale americana, già a partire dal mese di marzo. Per far fronte alla fiammata dell’inflazione, che ha raggiunto il record da 40 anni, il presidente della Fed di St. Louis, il “falco” James Bullard, ha aperto al primo aumento dei tassi da mezzo punto. Si tratterebbe solo della prima mossa, per far poi incrementare i tassi di interesse di cento punti entro l’1° luglio, ha spiegato il banchiere centrale all’agenzia Bloomberg.
Dopo il dato sull’inflazione, la Casa Bianca ha fatto trapelare che è «appropriato» che la Federal Reserve «ricalibri il sostegno» all’economia. Anche se il presidente Usa, Joe Biden, continua a credere in «una riduzione sostanzialedell’inflazione entro la fine del 2022», sebbene l’attuale livello sia «elevato».
Il problema è che i sondaggi pubblicati dalla stampa Usa non gli sono favorevoli in vista delle elezioni di Midterm. Il surriscaldamento dell’inflazione ha infatti ridotto il potere d'acquisto delle famiglie ed eroso la popolarità del presidente democratico. Questo nonostante l'economia sia cresciuta al suo tasso più forte da 37 anni nel 2021 e il mercato del lavoro stia rapidamente sfornando posti.
La questione iraniana
Poi c'è il dossier iraniano dove Biden sta cercando di ripristinare l'accordo per il blocco del programma atomico iraniano, rifiutato da Donald Trump nel maggio 2018, in cambio dell'eliminazione delle sanzioni economiche. Un effetto strategico dell’accordo con Teheran sarebbe il rientro dell'export di greggio iraniano nel mercatointernazionale (oggi gli ayatollah vendono praticamente solo ai cinesi) facendo calare il prezzo del petrolio ed espandere l’offerta.
Ecco perché gli osservatori stanno monitorando attentamente l'esito delle trattative nucleari tra Stati Uniti e Iran a Vienna, riprese questa settimana. E non a caso la Casa Bianca sta facendo forti pressioni sull'Iran per cercare di ripristinare al più presto l’accordo nucleare del 2015 voluto dall’ex presidente Barack Obama, aggiungendo che non sarà possibile ritornare al patto se non sarà firmato nelle prossime settimane.
Tanta fretta, vista l’ostilità di tutti i deputati e senatori repubblicani, non si spiega se non con una pressante esigenza diridurre le pressioni inflazionistiche interne. I prezzi al consumo negli Usa lo scorso mese sono saliti al +7,5 per cento sull’anno dal +7 per cento di dicembre, ai massimi dal 1982. Su base mensile l’inflazione è ferma al +0,6 per cento come a dicembre.
L’economia americana è alle prese con un’alta inflazione, causata da uno spostamento della spesa dai servizi ai beni verificatesi durante la pandemia innescata dal Covid-19. Trilioni di dollari in aiuti federali e statali hanno alimentato la spesa, che si è scontrata con i limiti di capacità produttiva.
La fiammata dei prezzi è il prodotto di un “cigno nero”, una combinazione di elementi connessi alla pandemia, compresi i problemi delle catene di approvvigionamento, la scarsità di componenti e di manodopera e dei costi del greggio e gas. Ma a preoccupare è soprattutto l’aumento in un anno, dei prezzi dell'energia che sono balzati del 27 per cento. E qui l’intesa con gli iraniani sarebbe importante per ridurre i prezzi di greggio e gas, riducendo il ruolo di mediatore di ultima istanza dell’Arabia Saudita e della Russia nell’Opec plus.
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