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Un secolo fa fu un italiano il primo a teorizzare che i conflitti del futuro sarebbero stati vinti piegando il morale della popolazione attacandola dal cielo.
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Da allora tutti gli eserciti di tutto il mondo hanno provato a mettere in pratica questa teoria: dai brutali bombardamenti della Seconda guerra mondiale a quelli chirurgici della Nato.
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Ma i risultati sono stati sempre gli stessi: sotto le bombe i popoli si stringono ai loro governanti oppure sopportano stoicamente. Dall’Ucraina al Vietnam, passando per la Germania e il Giappone, la guerra area si è dimostrata crudele e anche inutile.
A tre giorni dall’inizio del più devastante bombardamento aereo del conflitto, l’Ucraina non sembra affatto più vicina alla resa. I missili hanno lasciato milioni di persone senza luce e acqua calda. La Russia ha attaccato con l’evidente obiettivo di infliggere la maggiore sofferenza possibile ai civili, nella speranza che questi spingessero il loro governo a cercare un accordo di pace. Ma la strategia non ha funzionato. Gli ucraini hanno dato prova di una capacità di resistenza superiore a quanto immaginato dai russi e, sotto le bombe, si sono stretti ancora di più al loro presidente invece che cercare di rovesciarlo.
Il sogno di Douhet
Per chi conosce la storia, né la strategia di Vladimir Putin né la reazione degli ucraini sono una novità. È almeno dall’inizio dell’età industriale che gli eserciti sognano di distruggere i loro nemici senza doversi impegnare in una battaglia corpo a corpo, un desiderio naturale considerato che i soldati sono esseri umani, avversi al rischio esattamente come tutti gli altri.
Nel 1864 il generale unionista William Tecumseh Sherman, reduce dall’incendio di Atlanta e dalla sua “marcia verso il mare” che aveva lasciato una scia di distruzione nei territori confederati, scriveva: «Non stiamo combattendo solo un esercito ostile, ma un popolo ostile e dobbiamo far sentire le dure conseguenze della guerra ai giovani e ai vecchi, ai ricchi quanto ai poveri».
Ai tempi dei cavalli e dei cannoni, colpire i civili evitando a propria volta di essere colpiti poteva riuscire solo nelle vaste pianure del Nuovo mondo. Per fare lo stesso nell’angusta Europa, serviva qualcosa che permettesse di superare di slancio montagne, fiumi, trincee e filo spinato. Una volta inventato l’aeroplano, quindi, era solo questione di tempo perché a qualcuno venisse l’idea di usarlo per bombardare i civili.
Il primo a pensarci fu un italiano, il generale Giulio Douhet, un bersagliere casertano di famiglia piemontese, autore, nel 1921, di uno dei più influenti trattati militari del secolo scorso. Il dominio dell’aria è un libro che Douhet scrisse dieci anni dopo la sua esperienza durante la guerra di Libia, dove era stato inviato a osservare l’utilizzo degli aerei contro i turchi (un altro primato che spetta agli italiani: il tenente Giulio Gavotti fu il primo essere umano a lanciare una bomba da un aereo).
Nel testo, Douhet sostiene che le guerre del futuro sarebbero state vinte dalla nazione che si fosse dotata della flotta di bombardieri più grande e più veloce nel distruggere le città del nemico e quindi la sua volontà di resistere. Le guerre saranno brutali e i civili saranno presi di mira, scriveva Douhet, ma saranno anche brevi. E se il vincitore riuscirà a colpire prima di essere colpito, non subirà alcuna perdita, né tra i suoi militari né tra la popolazione.
Da allora tutti gli eserciti del mondo hanno provato a mettere in pratica i suoi principi e quelli dei suoi coevi, come l’americano Billy Mitchell o l’inglese Hugh Trenchard. Senza distinzioni tra dittature, monarchie o repubbliche, gli eserciti riuscirono a persuadere i loro governanti che una guerra diretta prima di tutto contro le abitazioni, le scuole, gli ospedali e gli altri aspetti della vita che definiamo “civilizzata” sarebbe stata più breve e persino più umana di un conflitto tradizionale.
Un secolo di bombe
Tra le due guerre mondiali, tutte le grandi potenze si dotarono di enormi flotte di bombardieri che avevano come scopo principale quello di annichilire i civili. L’attacco su Guernica, durante la guerra di Spagna, fu la prova generale, e i tedeschi misero in pratica la lezione appresa su Varsavia, Rotterdam e poi Londra. Con ben altra determinazione e potenza industriale alle spalle, gli Alleati fecero lo stesso su Berlino, Dresda, Amburgo, Tokyo.
La distruzione causata durante la Seconda guerra mondiale fu immensa. Fino a due milioni di civili furono uccisi dalle bombe sganciate dagli aerei, la stragrande maggioranza da quelli alleati. Decine di milioni rimasero senza casa. La strage non fu causata soltanto dall’imprecisione delle armi (non c’erano missili intelligenti all’epoca e anche per distruggere un fabbrica era inevitabile colpire tutto ciò che c’era intorno). I bombardieri attaccavano le abitazioni civili di proposito e negli uffici degli alti comandi si studiavano i metodi più efficaci per causare il massimo danno alla popolazione. Le strategie più in voga prevedevano qualche variazione delle teorie originarie di Douhet: una combinazione di ordigni incendiarie seguiti da bombe esplosive, alcune a scoppio ritardato in modo da colpire i soccorritori (nel suo libro, Douhet aggiungeva a questo binomio anche le bombe a gas velenoso, un suggerimento che, a differenza delle sue altre idee, non ha avuto altrettanta diffusione). Gli strateghi degli Alleati furono i più creativi in questo campo, utilizzando anche la meteorologia per rendere ancora più efficace la loro campagna di distruzione. Teorizzarono infatti la cosiddetta “tempesta di fuoco”: un incendio di tali proporzioni e temperatura da causare venti forti come un uragano.
I bombardieri hanno continuato a devastare città anche dopo la guerra. Mentre gli esseri umani raggiungevano la Luna, i grandi bombardieri B-52 sganciavano bombe su Hanoi più o meno nello stesso modo in cui i loro “antenati” avevano raso al suolo Dresda. Tra il 1965 e il 1975, Laos, Cambogia e Vietnam sono stati colpiti con il doppio delle bombe utilizzate dagli Stati Uniti durante tutta la Seconda guerra mondiale. Occorre arrivare alla fine del Novecento per vedere la comparsa massiccia delle cosiddette “armi intelligenti”. Ma la promessa che la tecnologia avrebbe reso superflue le teorie di Douhet si è rivelata fallace.
Nella campagna Nato del 1999, dopo che un mese di attacchi contro le truppe serbe in Kosovo non aveva prodotto risultati apprezzabili, gli strateghi hanno deciso di mettere pressione sulla popolazione civile iniziando a prendere di mira la stazione tv di Belgrado, ponti, strade e centrali elettriche. I generali Nato sostenevano che il loro obiettivo restava danneggiare le operazioni militari in Kosovo, ma a nessuno sfuggiva che la speranza rimaneva quella eloquentemente espressa dal generale Sherman: far sentire alle persone comuni il peso della guerra nella speranza che questo facesse cambiare strada al loro governo.
Crudele e inutile
C’è molto da dire su queste pratiche dal punto di vista morale. È giusto colpire la popolazione civile se con il suo lavoro nelle fabbriche o con il suo tacito sostegno contribuisce allo sforzo militare? Le leggi di guerra elaborate dopo la fine del secondo conflitto mondiale lasciano molto spazio a interpretazioni e zone grigie. Il moderno diritto di guerra ruota attorno al principio cardine della proporzionalità. È legittimo un attacco che coinvolge i civili a patto che ci sia proporzione tra obiettivo militare e danni collaterali. Ma come pesare in questa equazione, ad esempio, la morte degli operatori di una tv che fa propaganda con l’obiettivo militare di danneggiare il regime? Ovviamente, sulla base di questi principi, ne deriva che l’esercito in grado di esercitare la massima pressione con le minime conseguenze collaterali è automaticamente il più morale. Ma se la precisione degli attacchi è solo questione di denaro e tecnologia, questo non equivale a dare carta bianca ai ricchi mettendo i poveri automaticamente dalla parte dei cattivi?
Se anche archiviamo la questione morale, c’è un altro problema con le teorie di Douhet e di migliaia di altri militari dopo di lui. Come Putin non sta riuscendo a piegare il morale degli ucraini, così Adolf Hitler non ha piegato la resistenza dei britannici, né con il Blitz, né con i disperati attacchi con i missili V2 alla fine della guerra. Nemmeno la Germania si è arresa quando le sue città sono state ridotte in cenere dai bombardieri alleati. C’è voluto l’ingresso dei carri armati russi a Berlino. Persino sull’utilità delle armi atomiche gli storici hanno ancora dubbi. Non sono pochi quelli che sostengono che il Giappone non si è arreso per la bomba su Hiroshima, ma per la dichiarazione di guerra dell’Unione sovietica, due giorni dopo. Nel Dopoguerra la distruzione di Hanoi non ha impedito ai vietnamiti di conquistare Saigon, i bombardamenti Nato non hanno spinto la popolazione serba a rivoltarsi contro Milosevic, né quelli israeliani hanno indebolito Hamas. Tutte le evidenze mostrano il contrario.
La tragedia della moderna guerra aerea è che ancora prima di essere moralmente riprovevole si è dimostrata inutile. Ma ancora oggi, l’idea di colpire senza essere colpiti, di vincere senza combattere, esercita un fascino irresistibile sui militari. Hanno avuto un secolo sanguinoso per imparare la lezione, ma ancora non danno segno di voler rinunciare al loro sogno impossibile.
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