- Nelle recenti tornate elettorali, quasi tutti i paesi dell’America del sud, dopo la svolta a destra nella seconda metà degli anni Dieci del nuovo millennio, sono tornati a guardare a sinistra, pur con alcune eccezioni.
- Le elezioni svolte in Cile e in Colombia sono state forse le più emblematiche, con la vittoria di Gabriel Boric e Gustavo Petro. Anche in Perù a vincere è stata la sinistra estrema di Castillo contro il populismo di destra.
- Ora l’attesa è per il Brasile che andrà alle urne per scegliere il nuovo presidente. Il testo fa parte del nuovo numero di Scenari: "Tormento ed estasi dell'America latina", in edicola e in digitale dal 30 settembre.
Stravolgimenti politici, elezioni sorprendenti e crisi economiche. Negli ultimi anni il Sudamerica è stato tutto questo e molto altro, nonostante rimanga un subcontinente, e per alcuni un continente vero e proprio, spesso lontano dall’attenzione mondiale.
Nelle recenti tornate elettorali quasi tutti i paesi dell’America del sud, dopo la svolta a destra nella seconda metà degli anni Dieci del nuovo millennio, sono tornati a guardare a sinistra, pur con alcune eccezioni. Le elezioni svolte in Cile e in Colombia sono state forse le più emblematiche. Ora l’attesa è per il Brasile, il paese più grande della regione, che andrà alle urne nel mese di ottobre per scegliere il nuovo presidente.
L’Argentina peronista in crisi
Dopo gli anni di Mauricio Macrì alla presidenza dell’Argentina, con le elezioni del 2019 è salito al potere Alberto Fernández. Un professore di diritto all’università ma anche un moderato peronista che con il Fronte de todos ha raggiunto più del 48 per cento dei consensi, battendo il neoliberista Macrì. Insieme a lui, come vicepresidente, è stata eletta Cristina Fernández de Kirchner, già alla guida del paese dal 2007 al 2015 e figura più radicale del peronismo.
Già nel 2014-2015 l’Argentina aveva raggiunto quello che sembrava il culmine di una grave crisi economica finanziaria. L’ex presidente Macrì nel 2018 aveva richiesto al Fondo monetario internazionale un prestito da 57,1 miliardi di dollari per aiutare il paese, ma nel 2019 era stato dichiarato il default dopo un mancato pagamento di bond.
Con l’arrivo di Fernández la situazione economica è solo in parte cambiata e la pandemia non ha aiutato, tanto che l’Argentina nel maggio del 2020 è andata nuovamente in default. Nel 2022 Buenos Aires ha raggiunto un accordo col Fmi per la ristrutturazione del debito, ciononostante alcune stime hanno previsto che l’inflazione entro la fine dell’anno potrebbe raggiungere il 100 per cento.
Sul piano politico la situazione, anche all’interno del governo di Fernández è tesa, dopo gli avvicendamenti di un paio di ministri dell’Economia. Il 1° settembre scorso Cristina Kirchner, imputata per corruzione in un processo che potrebbe vederla condannata a dodici anni di carcere, è scampata a un attentato in cui un uomo con una pistola ha cercato di ucciderla. Un evento che ha scatenato manifestazioni di solidarietà in tutta l’Argentina, in quello che è un paese diviso che si avvia alla prossima tornata elettorale del 2023.
La Bolivia post Morales
In Bolivia il presidente è Luis Arce, rappresentante del partito di Evo Morales, il Movimento per il socialismo. Arce ha raggiunto la presidenza con le elezioni dell’ottobre del 2020 dopo la crisi politica che si era aperta con la tornata elettorale dell’anno precedente.
Nel voto del 2019, infatti, era stato eletto proprio l’ex presidente Morales. Tuttavia, la candidatura del sindacalista indigeno era stata già in partenza contestata a seguito di un referendum: la popolazione aveva infatti votato contro la possibilità per un presidente di ricandidarsi dopo due mandati. Ma il Tribunale supremo della giustizia aveva concesso a Morales di partecipare alla competizione elettorale. Dalle urne ne era uscito vincitore, senza neanche la necessità di un ballottaggio – come all’inizio i primi dati del conteggio facevano pensare.
A quel punto violenze e scontri sono scoppiati in tutto il paese. Dopo l’annuncio di nuove elezioni, e anche per via di pressioni da parte dell’esercito, Morales è stato costretto alle dimissioni. Al suo posto, a proclamarsi presidente, è arrivata la conservatrice Jeanine Áñez che ha traghettato la Bolivia fino a quando è salito al potere Arce.
Lula-Bolsonaro, il duello in Brasile
Le elezioni dell’ottobre 2018 in Brasile hanno visto la vittoria di Jair Bolsonaro, esponente populista e di estrema destra del partito Social liberale. Una tornata che è stata segnata fortemente dall’esclusione dell’ex presidente Luiz Inácio Lula da Silva, implicato in un processo di corruzione e condannato a diversi anni di carcere, a causa di quello che lui ha definito una persecuzione politica. Un voto preceduto da una campagna elettorale dura, sfociata anche nella violenza quando Bolsonaro, nel settembre 2018, è stato accoltellato durante un evento elettorale da un oppositore.
A distanza di quattro anni e dopo 580 giorni passati in carcere, Lula è tornato in campo, grazie a una sentenza della Corte suprema del Brasile che ha annullato le condanne ai suoi danni. Il 2 e il 30 ottobre si svolgeranno i due turni delle elezioni presidenziali, dove lo stesso Lula secondo i sondaggi è in vantaggio rispetto al presidente uscente.
Il consenso di Bolsonaro è crollato in particolare a causa della sua dubbia gestione della pandemia da Covid-19, descritta fin da subito come una semplice influenza. Il presidente è sempre stato contrario alle vaccinazioni e favorevole a un’immunizzazione attraverso il contagio. Intanto però il Brasile è stato il secondo paese al mondo per morti accertati (oltre 685mila a oggi), tanto che il Senato brasiliano è arrivato a svolgere un’indagine contro Bolsonaro per crimini contro l’umanità, violazione delle misure sanitarie, notizie false e istigazione alla criminalità.
E dopo il coronavirus il Brasile ha dovuto fare i conti con la crisi economica, tra la disoccupazione in aumento, settori come l’agricoltura in grave difficoltà, la recessione e l’incremento della criminalità. Condizioni che, oltre al contesto politico, hanno contribuito a rendere molto accesa e polarizzata l’attuale campagna elettorale.
Il Cile di Boric
Tra le più recenti elezioni in Sudamerica ci sono state quelle in Cile, dove tra novembre e dicembre del 2021 la popolazione ha eletto il proprio presidente. A vincere è stato Gabriel Boric, 36 anni, il più giovane capo di Stato del paese ed esponente del Frente Amplio, la coalizione di sinistra.
Boric ha battuto José Antonio Kast, 56 anni, un avvocato di destra che guardava a Bolsonaro e all’ex inquilino della Casa bianca Donald Trump.
La vittoria di Boric, leader dei movimenti studenteschi, è stata convincente nel secondo turno, con il 55,8 per cento dei voti rispetto al 44,1 per cento di Kast, nonostante alla vigilia sembrasse una sfida più in bilico. Boric ha promesso riforme strutturali volte a un intervento statale più forte in determinati settori, tra cui la sanità e l’istruzione.
Il voto cileno del 2021 è stato molto polarizzato. A influenzarlo, anche le violenti proteste scoppiate nel 2019 contro l’allora governo di Sebastián Piñera, scaturite dall’aumento del prezzo dei biglietti della metropolitana a Santiago e poi sfociate in aperta contestazione contro le politiche liberiste dell’allora presidente. Disordini che hanno lasciato per le strade decine di morti e centinaia di feriti a causa della repressione dei militari.
Se in generale l’economia del Cile è una delle più stabili del subcontinente, nel paese i livelli di disuguaglianza, sia economici che sociali, sono altissimi. Nel 2020, dopo gli eventi dell’anno prima, in un referendum i cittadini cileni hanno dato il via libera ai lavori per modificare la costituzione, per superare il testo redatto ai tempi della dittatura di Augusto Pinochet.
Tuttavia, nel voto del 4 settembre scorso, i cileni hanno bocciato con un altro referendum la nuova Costituzione, preferendo mantenere la vecchia carta del 1980. A esprimere un voto contrario al testo progressista è stato il 60 per cento degli elettori. Tra l’altro, lo stesso Boric aveva annunciato il proprio sostegno al nuovo disegno, ma non è bastato. Nonostante la sconfitta, il presidente ha annunciato il proseguimento dei lavori per proporre un ulteriore riforma della Costituzione, per far sì che il referendum del 2020 abbia compimento.
La svolta della Colombia
L’ultima nazione sudamericana a eleggere il nuovo presidente è stata la Colombia. Dopo che nel marzo 2022 si sono svolte le elezioni parlamentari, il 29 maggio e il 19 giugno ci sono stati i due turni delle presidenziali.
Con il 50,4 per cento dei voti al ballottaggio, a vincere è stato Gustavo Petro, già guerrigliero del gruppo M-19, sindaco di Bogotà, leader del partito Colombia Humana e della coalizione Pacto Historico.
Al ballottaggio Petro ha battuto l’altro contendente, il populista indipendente Rodolfo Hernández, dopo che Federico Gutiérrez – esponente della destra del presidente uscente (che non si è potuto ricandidare) Iván Duque Márquez – si era fermato al primo turno.
Petro ha prestato giuramento nell’agosto scorso ed è il primo presidente di sinistra del paese. Tra le promesse fatte prima e dopo la sua elezione, le più importanti riguardano la riforma fiscale, la riforma rurale e il cambio di approccio rispetto alla “guerra alla droga”. L’uso massiccio dei militari per stroncare il traffico di sostanze stupefacenti ha fallito, secondo Petro, che ha ventilato un cambio di rotta.
Nel suo discorso di insediamento, il neo presidente ha anche espresso la volontà di rimettere in piedi i negoziati di pace con l’Esercito di liberazione nazionale (Eln) e di portare avanti l’accordo della cessazione delle ostilità firmato nel 2016 tra Bogotà e le Farc, le Forze armate rivoluzionarie della Colombia.
L’Ecuador controcorrente
L’Ecuador, invece, si è discostato dalla tendenza in atto in Sudamerica. L’11 aprile del 2021, infatti, a vincere il ballottaggio delle elezioni presidenziali è stato il conservatore Guillermo Lasso. L’allora 65enne banchiere ha raccolto il 52,5 per cento dei voti, riuscendo a ribaltare le aspettative della vigilia e a battere Andrés Arauz, candidato della sinistra e uomo di fiducia dell’ex presidente Rafael Correa, ora in esilio in Belgio dopo una condanna per corruzione. Il fronte progressista si è presentato diviso, soprattutto per via della componente indigena rappresentata dal partito Pachakutik di Yaku Pérez.
Nel paese sono scoppiati disordini e violenze nel giugno del 2022, quando l’influente Confederazione delle nazionalità indigene dell’Ecuador (Conaie) ha organizzato marce e manifestazioni di protesta contro i prezzi del carburante. A Quito per giorni ci sono stati scontri, con diverse vittime e centinaia di feriti. Una situazione che ha portato Lasso a dichiarare lo stato di emergenza in varie province del paese e successivamente a ridurre il costo dei carburanti, venendo incontro alle richieste degli indigeni.
La battaglia per il Perù
Un altro voto polarizzato è quello che ha interessato il Perù nel 2021. L’11 aprile e il 6 giugno si sono svolti i due turni delle elezioni presidenziali. A scontrarsi due visioni opposte del paese: da una parte Pedro Castillo, candidato della sinistra radicale, e dall’altra Keiko Fujimori, populista di destra e figlia dell’ex presidente autoritario Alberto Fujimori (dal 1990 e il 2000). Il ballottaggio ha visto vincere Castillo per poche migliaia di preferenze, 50,12 per cento contro il 49,87 per cento di Fujimori, dopo uno scrutinio durato giorni e diverse polemiche per accuse di frodi.
Castillo, che ha definito il proprio partito marxista e leninista, ha parlato esplicitamente di lotta di classe tra ricchi e poveri. In poco più di un anno, il nuovo presidente è stato già coinvolto in alcuni scandali e ha dovuto cambiare il suo gabinetto diverse volte. Ma il Perù attraversa una grave crisi politica da anni e ha visto susseguirsi cinque presidenti in cinque anni, tre dei quali nel giro di una settimana nel 2020.
La crisi istituzionale e l’ingovernabilità sono collegate alle gravi condizioni economiche in cui versa il paese, che tra marzo e aprile 2022 ha visto scoppiare proteste e disordini soprattutto contro il rincaro dei prezzi. Manifestazioni che sono state duramente represse.
L’anomalia dell’Uruguay
Nel 2019, dopo quindici anni di potere della sinistra rappresentata dal Frente amplio, in Uruguay è stato eletto il conservatore Luis Lacalle Pou con una coalizione di centrodestra. Lacalle Pou ha superato il candidato di sinistra Daniel Martínez, già ministro e sindaco di Montevideo, che dopo essere risultato in vantaggio al primo turno non è riuscito ad allargare il suo consenso.
L’anomalia rappresentata dall’Uruguay, rispetto alla quasi totalità degli altri paesi sudamericani, è l’assenza di particolari tensioni nel processo democratico del voto. Un’elezione avvenuta in maniera tranquilla e senza rivendicazioni e polarizzazioni eccessive.
Il Venezuela di Maduro
In Venezuela è in corso da anni una crisi economica e politica, che ha portato il paese a esser considerato di fatto “fallito”. Le elezioni del maggio 2018, anticipate rispetto alla normale scadenza, sono state vinte dal presidente uscente Nicolás Maduro, ma il risultato è stato contestato dalle opposizioni (tra l’altro alcune forze avevano boicottato le urne) per una mancata trasparenza del voto.
La vittoria di Maduro, inoltre, non è stata riconosciuta dalle Nazioni unite, dall’Unione europea e, soprattutto, dagli Stati Uniti. Maduro, però, si è comunque insediato nel gennaio del 2019, accendendo la crisi politica.
Di lì a pochi giorni l’Assemblea nazionale del Venezuela, in cui era forte l’opposizione all’erede di Hugo Chávez, ha infatti nominato presidente ad interim Juan Guaidó, rimuovendo formalmente dalla presidenza Maduro. Il leader dell’opposizione, di 39 anni, è stato fin da subito appoggiato dagli Usa, ma anche dagli allora governi di Argentina, Brasile, Colombia, Canada e decine di altri paesi.
Lo scontro politico tra Guaidó e Maduro da allora è proseguito, con il secondo che ha accusato il primo di aver attuato un colpo di stato con l’aiuto di attori stranieri. Nel 2021 le elezioni legislative hanno portato a uno stravolgimento della composizione dell’Assemblea nazionale, ora tutta in mano a Maduro (vista anche la nuova decisione delle opposizioni di disertare il voto).
Maduro continua a governare un paese in pieno fallimento, mentre Guaidó è indebolito nonostante la recente conferma dell’appoggio di Washington.
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